Al di là di tutto, al di là del potere, delle forme per esercitarlo e per subirlo, al di là della fiaba e del suo nero mostruoso, della bellezza e della grande bellezza, e anche al di là della realtà e della fantasia e dell’immaginazione della realtà stessa, al di là di tutto, comprese le ispirazioni e la co-produzione internazionale (che si patisce quasi esclusivamente, e paradossalmente, nelle comparsate italiane) con i suoi diktat, Il racconto dei racconti mi pare un film sul movimento.
Il movimento di una persona o di una cosa da un luogo a un altro, ma il movimento anche ontologico. Il divenire. Se il film di Garrone è veramente un film sulla realtà, su una realtà, allora mi piace pensarlo sulla realtà filosofica, la perenne nascita e morte della realtà, del farsi e disfarsi e farsi ancora delle cose e della realtà, in un moto continuo e infinito. La creazione e la distruzione e la creazione. Un film in lento movimento sul movimento come scoperta necessaria (e talvolta sconcertante) di sé e della Storia. E di quanto la Storia, in ogni sua declinazione, faccia parte del sé (di ieri, oggi e domani).
Il racconto dei racconti si apre con un movimento, una persona che cammina di spalle. E di movimenti ne mette in scena molti, giocare (la regina col figlio nel labirinto), allontanarsi (il figlio dalla regina, la figlia dal re, il re stesso dalla propria figlia, la sorella dalla sorella), separarsi e ricongiungersi e separarsi di nuovo (i due gemelli di cuore di drago), saltare (la pulce da una mano all’altra del re).
Ma il movimento a cui sembra alludere con più forza Garrone è quello del cambiamento, della mutazione, la metamorfosi della pelle, spesso letteralmente, come nel racconto delle due sorelle, per assecondare la Storia e magari per provare a cambiare vita. La scorticazione in questo episodio è il movimento ultimo, definitivo, un togliere da sé per dare agli altri. E anche le uccisioni (il taglio della gola dell’orco, da sinistra verso destra), i tentati omicidi (la sorella gettata dalla finestra), i salvataggi (la figlia del re portata sulle spalle dal funambolo) sono tutti spostamenti dal reale, gesti che implicano una volontà e una coscienza della persona, dell’uomo nella Storia e per la Storia, ovvero per lo svolgimento della Storia. Movimento allora come allegoria del presente proiettato al futuro. E anche come scontro di titani, lotta di poteri che lottano per la supremazia (il re e il drago).
Il movimento di Il racconto dei racconti è quasi sempre un movimento teso a violentare l’ordine costituito, a spezzare i fili del sistema: il figlio della regina che a suo modo si esilia da solo per restare unito al gemello bastardo e salvarlo dalle tenebre; la figlia del re che infrange lo sposalizio imposto e torna a Palazzo. Il movimento allora anche come frattura (lo sgozzamento, ancora). Ma soprattutto il movimento in quanto rivelazione del bisogno di muoversi, dell’esigenza del movimento, sia per la sopravvivenza, sia per il dovere umano (civile!) di rompere l’incantesimo dello stato delle cose.
Perfino i giullari di corte servono a questo, a muovere l’aria, a creare un movimento di rottura dei codici, quantunque col riso e con la burla (e non è casuale che la regina di Salma Hayek, così austera e così intransigente, rimanga impassibile e infastidita di fronte alla loro esibizione). Cosa ci sta a fare altrimenti l’orso che fa l’hula hoop, simbolo di esuberanza, movimento di libertà scacciapensieri?
Con uno stile che privilegia l’intimismo ai panorami, e che comunque sa bene cosa sia lo spettacolo senza essere celebrativo o autoassolutorio (trovate eguali nel mercato italiano contemporaneo?), e che è altresì capace di sequenze di magnificenza esemplare (lo scontro fra il re nello scafandro e il drago è già di suo un capolavoro), Garrone evoca il movimento come distrazione dal dato e dallo stabilito, perché solo in questo modo è possibile svincolarsi dall’autorità della realtà.
La corte che, naso all’insù, osserva stupita il funambolo sulla corda infuocata, durante l’incoronazione della figlia del re, rappresenta l’immagine decisiva della sconfitta dei dispositivi del potere (del reale); mentre, guarda caso, qualcuno (la sorella regina) si allontana di fretta, ancora, di nuovo, muovendosi.