INTERVISTE

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"Una comunità unita dal denaro"

Abbiamo conversato brevemente con lo scrittore americano Stephen Amidon, a proposito di Il Capitale umano (Mondadori 2005, traduzione dall’inglese di Marta Mattini), il romanzo da cui Paolo Virzì ha tratto il suo omonimo film.

Hai visto il film di Virzì? Ti è piaciuto il modo in cui ha adattato la tua storia noir, trasportandola dal New England all’Italia del nord?
Sì, ho visto il film e l’ho molto amato. La cosa che più mi ha colpito è l’abilità con cui Paolo ha saputo trasportare la storia dal Connecticut alla Brianza. Ci è riuscito perché credo si sia concentrato sulle relazioni umane e sui temi più profondi del romanzo. Invece di girare un film sulle caratteristiche peculiari di una certa regione, ha riflettuto su argomenti fondamentali come la famiglia e l’avidità.

Il nord Italia, scelto come ambientazione geografica e sociale del Capitale umano, è una delle zone più ricche del Paese, ma al tempo stesso anche una delle più critiche: una terra gestita dalla cultura denaro, dominata da piccole industrie e capannoni, molto colpita dalla crisi economica. Avevi in mente un paesaggio simile, quando hai deciso di ambientare il tuo romanzo nel New England?
Assolutamente sì. Il romanzo è ambientato in una zona degli Stati Uniti dove vivono banchieri, broker e avvocati che in settimana lavorano a New York. Volevo tratteggiare il ritratto di una comunità unita dal denaro, dallo status sociale e dal mercato internazionale, piuttosto che dalla terra o dalla presenza di una grande sistema produttivo, come un tempo potevano essere le macchine per Detroit o l’acciaio per Pittsburgh. La mia è una comunità quasi virtuale, insomma, e volevo sottolineare la difficoltà e mostrare la sfida di crescere una famiglia in un posto senza storia e senza la consapevolezza di un bene comune.

Qui in Italia, anche con qualche polemica di troppo, il film è stato visto come un racconto sulla crisi della borghesia e in generale della società: l’aspetto sociologico, però, era già presente nel tuo romanzo, vero?
Credo che uno dei grandi racconti del nostro tempo sia il declino della classe media, in America come nell’Europa occidentale. Penso alla mia vita, ad esempio: i miei genitori, che appartenevano alla classe media, hanno per molti motivi avuto una vita molto più facile della mia: case e trasporti più economici, facilità di credito, buon livello di scuole pubbliche… Io, invece, che ho un identico status sociale, devo affrontare battaglie più complicate e continue: una condizione che regala parecchi mal di testa in più, ma anche ottime storie da raccontare!

A proposito delle fonti d’ispirazione per il suo film, Virzì ha spesso citato la cultura ebraica americana (i Coen, Woody Allen), l’humour nero anglosassone e maestri del noir come Claude Chabrol. Pensando invece al tuo romanzo, il primo nome che viene in mente è John Cheever: sei d’accordo? E quali sono, se li hai, gli altri modelli del tuo lavoro?
Cheever è stato certamente una grande fonte d’ispirazione
. L’ho letto da ragazzo e come scrittore mi ha segnato per sempre. Io scrivo di sobborghi americani, e nessuno ha saputo farlo meglio di lui. Sono stato inoltre debitore nei confronti di Peter Yates (Revolutionary Road), De Lillo e Tom Wolfe: tutti scrittori che si concentrano sul grande divario fra le aspirazioni dell’America e la cruda realtà delle cose. Un pensiero, questo della grande distanza tra sogni e realtà, che spesso affligge i miei vitali ma ingenui concittadini.

Come molto noir contemporanei, anche Il capitale umano non ha una narrazione lineare, ma è un mosaico di storie, un puzzle che compone un quadro generale. Un simile approccio al genere ti coinvolge oppure preferiresti qualcosa di più classico?
Amo i registi che accettano la complessità delle cose, come Renoir, Altman, Paul Thomas Anderson, Guillermo Arriaga. Anche loro hanno ispirato il mio romanzo, perciò non mi sorprende affatto che una sua versione cinematografica abbia simili punti di riferimento e sviluppi a sua volta una narrazione complessa.

Il lavoro di Virzì con gli attori è forse la cosa migliore del film: grazie a interpretazioni naturali e al tempo stesso forzate, ricche di sfumature psicologiche e di tratti grotteschi, ogni personaggio ha un carattere contradditorio e ambiguo… Tutto questa faceva già parte del romanzo o Virzì ha saputo arricchire il tuo testo? Nel caso, sei d’accordo con la sua interpretazione?
Rispetto al lavoro di Paolo con gli attori, sono affascinato dalla sua abilità di esplorare ed evocare la complessità loro e dei loro personaggi. Questo è anche un elemento importante del mio lavoro (nessuno dei miei personaggi, infatti, è completamente buono o cattivo, e non mi interessa molto renderli figure verosimili), ma sono rimasto affascinato dalla sottigliezza dei protagonisti del Capitale umano. Paolo e i suoi attori mi hanno insegnato cose che non sapevo del mio romanzo. Ascoltarli in conferenza stampa è stato come partecipare a una masterclass su di me!