Enrico Maria Artale

El Paraíso

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Ci sono film che, a dispetto della forte impronta realistica, non rispondono direttamente a nessun principio o riferimento esterno. E il caso di El Paraíso risulta emblematico di questa esigenza di autonomia, che è poi una spia emblematica del bisogno nel cinema italiano di parlare possibilmente (in) una lingua diversa, rifiutare l’effetto di riconoscibilità, quindi liberarsi da condizionamenti, etichette, generi e schemi che ne stanno soffocando progressivamente la libertà espressiva. Insomma, al di là dei richiami autobiografici dichiarati dal giovane autore, fa storia a sé la parabola di El Paraíso, mediante la descrizione accurata e minimale di un microcosmo edipico in cui assume un significato simbolico anche la connotazione sociologica e culturale immediata dei protagonisti, madre e figlio: di origini colombiane, vivono sul Tevere e di spaccio di sostanze stupefacenti.

Il nome stesso dell’uomo, Julio Cesar, interpreto da Edoardo Pesce con completa adesione psichica e fisiologica, dimostra la volontà di affrontare con spirito addirittura classico la provenienza geografica non solo come funzionale al discorso sul traffico di droga, ma come fattore inderogabile di un profondo senso di estraneità all’esistente. La chiusura del rapporto allude dunque ad un senso di alienazione ostentata che solo l’arrivo di un corriere donna, la giovane Ines (Maria Del Rosario Barreto Escobar), interrompe, determinando automaticamente l’estinzione della madre (Margarita Rosa de Francisco).

Ma non è neppure la chiave psicanalitica, o quella melodrammatica più evidente, a rendere questa storia completamente costruita sullo spazio molto stretto che intercorre tra i personaggi, in cui l’unico italiano ammesso, poiché necessario, eppure mantenuto sempre alla debita distanza, è Lucio (Gabriel Montesi). Ciò che vale, per loro, i personaggi, è l’esistenza quotidiana, le tensioni, i gesti e le pulsioni, indipendentemente dagli altri, amici, clienti, avventori dei locali dove si balla e ascolta musica sudamericana, forze dell’ordine, ergo dallo sguardo dello spettatore intenzionato a collocare il film in un qualche scorcio della propria mappa mentale.

Ciò che si vede e si sente deve bastare, incorniciato con accurato senso compositivo dentro inquadrature che denotano tuttavia una precisa volontà di rappresentare la violazione di uno spazio altrimenti e legittimamente provato. Queste creature post-pasoliniane, imparentate anche con l’universo umano e anti-narrativo instabile di Cassavetes, non stanno completamente né di qua (in Italia) né di là (in Colombia), in una zona grigia dell’illegalità, né troppo in alto nella catena criminale, né troppo in basso, vivendo decorosamente un disagio che nessun inizio sancisce e nessun finale può sciogliere. Come si addice a dei perfetti ed esclusivi Cesari estranei al mondo ma non a se stessi, cui sono completamente rivolti.


 

El Paraíso
Italia, 2023, 106'
Titolo originale:
id.
Regia:
Enrico Maria Artale
Sceneggiatura:
Enrico Maria Artale
Fotografia:
Francesco Di Giacomo
Montaggio:
Valeria Sapienza
Musica:
Emanuele de Raymondi
Cast:
Edoardo Pesce, Margarita Rosa de Francisco, Maria del Rosario, Gabriel Montesi, Matea Milinkovic
Produzione:
Ascent Film, Rai CInema, Young Films
Distribuzione:
I Wonder Pictures

Julio Cesar ha quasi quarant’anni e vive ancora con sua madre, una donna colombiana dalla personalità trascinante. I due condividono praticamente tutto: una casetta sul fiume piena di ricordi, i pochi soldi guadagnati lavorando per uno spacciatore della zona, la passione per le serate di salsa e merengue. Un’esistenza ai margini al tempo stesso simbiotica e opprimente, il cui equilibro precario rischia di andare in crisi con l’arrivo di Ines, giovane ragazza colombiana reduce dal suo primo viaggio come “mula” della cocaina.

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