Paul Thomas Anderson

Il filo nascosto

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Si tratta di un luogo comune davvero difficile da scalfire: l’idea che dietro un’immagine, dietro a un volto, dietro ai movimenti di un corpo vi sia qualcosa di più profondo, qualcosa che non si vede ma che ne indica l’essenza. Il segreto di una persona si troverebbe in quello che sta “sotto” la superficie, dietro la maschera. Ogni psicologismo – che poi non è altro che la versione disincantata e contemporanea di quella che una volta si chiamava anima – risiede su una topica di tipo verticale, dove il problema è “svelare” la profondità contro la superficie. Ne vediamo traccia persino nel linguaggio parlato, dove “essere profondi” è meglio che “essere superficiali”. 

Ma desiderare di vedere qualcosa che sta oltre il visibile instaura un rapporto particolare tra l’immagine e la parola, dove la seconda funziona da didascalia o da enunciazione discorsiva di una verità che sta oltre la prima. Oggi il senso comune sintonizzato sull’estetica delle serie tv chiede sempre di più personaggi “sfaccettati”, “complessi”, “pieni di sfumature”, ed è quindi tanto più difficile andare controcorrente e inseguire un cinema che invece fa di una “poetica della superficie” e dell’“intransitività” dell’immagine (Deleuze l’avrebbe chiamata sterilità) la sua cifra. Perché è difficile fare un cinema dove l’immagine non si fa illustrazione ed esemplificazione di una parola, ma dove pone una resistenza al significato e a quella ricerca di verità di chi piuttosto che guardare le cose così come sono preferisce andare a ricercare quello che sta “al di là” dell’immagine, dietro di essa.   

È stato merito di Roberto Manassero, nella sua monografia Paul Thomas Anderson. Frammenti di un discorso americano (Bietti, 2015), aver capito prima degli altri che il cinema di Anderson, quanto meno a partire da The Master, era invece un cinema che parlava del corpo. Non il corpo erotizzato che si fa supporto del desiderio, e nemmeno quello “significantizzato” e fatto a pezzi del cinema di Cronenberg, ma il corpo come ciò che pone una “resistenza” alla capacità della parola di interpretarlo. In un film come The Master che avrebbe dovuto mostrare una relazione maestro/allievo – e che quindi avrebbe dovuto mostrare un arco narrativo di trasformazione, magari nella forma negativa di uno scacco o di un fallimento – il personaggio di Freddie interpretato da Joaquin Phoenix pone l’ostacolo di una fisicità assoluta, che al culmine di un dialogo cruciale si mette a scoreggiare, “che distrugge a pugni un pisciatoio in cemento, che in una parete di legno vede solo una parete di legno, in un vetro un vetro”. Il corpo insomma è muto: non ha più una parola che ci possa dire cosa c’è al di là di esso. Non c’è più una psicologia da andare a ricercare oltre alla patina superficiale del visibile. Tutto quello che c’è è lì di fronte a noi, ed è per questo che è così difficile da mettere a fuoco. 

Con un gioco di parole potremmo dire che le superfici sono tutt’altro che superficiali. Arrivare a sostenere la posizione soggettiva della superficie, o per meglio dire, di un’immagine che non ha bisogno della parola, è tutt’altro che semplice. È troppo forte la tentazione di dire che cosa l’immagine vuole dire e che cosa c’è dietro di essa. 

Forse è per questo che ci sono voluti quasi vent’anni e una manciata di film a Paul Thomas Anderson per arrivare a una consapevolezza del visivo di questo tipo, dove non c’è arco narrativo né trasformazione psicologica che tenga, e dove si tratta di mettere tra parentesi la domanda di senso. Gli ultimi anni della sua carriera sono attraversati da questa passione ostinata per il non-senso: un’attività ormai sempre più assidua di regista di video musicali (tutti pochissimo cinematografici, nel senso di privi di una qualsivoglia storia); un documentario sulla gestazione di un album “indiano” del chitarrista e produttore Jonny Greenwood; un adattamento di un romanzo picaresco e labirintico come Vizio di forma, il cui trattamento cinematografico ha reso il suo intreccio persino più impenetrabile e di fatto irrilevante; e un finto romanzo di formazione come The Master che mostra l’incontro mancato di due uomini, un protégé e un maestro che di fatto protégé e maestro non diventeranno mai. 

Il filo nascosto è in effetti un film di tessuti e di superfici, dove della moda non vediamo la sua dimensione immaginaria e iconica – non si parla cioè della moda nel suo aspetto linguistico-sociale-simbolica come fanno i semiotici o come si vedeva nel Saint Laurent di Bonello – ma solo la sua materia, cioè il suo corpo. Sono moltissime, nel film, le scene dove i tessuti vengono toccati, tagliati, cuciti, misurati: vediamo i calli sulle dita, vediamo il lavoro delle sarte, vediamo persino commentare la consistenza dei tessuti sulla pelle, come quando uno dei personaggi si lamenta della sensazione che un tipo di stoffe le provoca sulla pelle. 

Reynolds Woodcock, l’immaginario sarto inglese degli anni Cinquanta su cui è incentrato il film (mutuato in realtà sulla biografia di Mary Blume dedicata allo spagnolo Cristóbal Balenciaga) è infatti un uomo totalmente assorbito dalla manipolazione dei suoi tessuti. Il suo successo e la sua celebrità emergono nel film solo sporadicamente nella forma di qualche fan che lo riconosce in un ristorante e nella scena del matrimonio di una delle sue committenti più importanti a cui Woodcock deve partecipare controvoglia. Per il resto il film ci mostra un uomo che lavora e che manipola e intreccia tessuti tutto il tempo, e che già dall’inizio, anche nella storia d’amore con Alma, l’altra protagonista femminile del film, vede il corpo di lei come una superficie da vestire e da misurare. Esattamente come in The Master,  l’improbabile incontro tra Woodcock – una sorta di quintessenza dell’haute couture e dello stile – e Alma, una sgraziata cameriera di origini straniere che quando mangia fa rumore con la bocca e che inciampa mentre deve servire ai tavoli, non avrebbe potuto che creare delle frizioni: lui un nevrotico assorbito dai rituali ossessivi della sua vita e lei, una donna che avrebbe voluto essere “unica” per lui.

Tuttavia il film è costruito con un arco narrativo nel quale la storia d’amore psicologizzante – ovvero quel principio inscalfibile al cinema, per cui i personaggi scoprono veramente se stessi soltanto quando riescono a mostrare il loro vero lato nascosto – viene da un certo punto in avanti del film messa da parte. Woodcock è uno scapolo incallito che già al primo appuntamento con Alma mette subito in chiaro che lui non si sarebbe mai voluto sposare. Questo perché la sua vita è da sempre guidata da un filo nascosto (ma il titolo originale è più azzeccato, perché si tratta di un “filo fantasma”), che è il rapporto con la madre morta. La superstizione popolare dice che quando si cuce o anche solo “si tocca” un vestito da matrimonio non ci si sposerà mai, e Woodcock a sedici anni, insieme alla sorella Cyril, prepara per mesi un vestito per le seconde nozze della madre. La missione della sua vita insomma sarà quella di fare vestiti, e non metterli lui stesso per celebrare magari la propria di vita («ma perché non ci si può sposare quando si fanno vestiti?» gli chiede Alma). Le ossessioni nevrotiche di lui, la caparbietà di lei nel suo amore per lui… Tutto sembra andare nella direzione di una storia d’amore che riesce a superare tutti gli ostacoli e a rompere gli incantesimi della famiglia Woodcock. Lui, che è solito mettere dei messaggi nascosti dentro al bavero dei propri vestiti scriverà infatti «never cursed», cioè liberato dalla maledizione, quando deciderà infine di sposarsi con Alma e liberarsi del fantasma della madre. 

La trovata geniale di Anderson è quella di andare oltre: la definitiva comprensione tra i due, il superamento degli ostacoli e il riconoscimento di essere fatti l’uno per l’altro si scopre in realtà essere solo un McGuffin. Il matrimonio non è una redenzione. Già in viaggio di nozze a Les Deux Alpes lei è insofferente, lui è infastidito dal modo in cui lei mangia fino a una bellissima scena di capodanno, girata come Viaggio in Italia di Rossellini ma che a noi sembra essere la festa di Opfergang di Veit Harlan, dove la coppia si separa e si unisce allo stesso tempo. 

Perché Il filo nascosto è un film di superfici, non di profondità. E l’amore tra Reynolds Woodcock e Alma non è la scoperta della verità della propria anima, ma l’intreccio di due solitudini. Esattamente come nella sartoria dove i vestiti prendono forma non perché i materiali si fondono e diventano una cosa unica ma perché si intrecciano, si sostengono attraverso la propria separazione

In una sorta di controcanto di The Master, Il filo nascosto ritorna sulla topica del corpo che fa resistenza: però è una resistenza che non instaura più una dialettica negativa, ma della quale qualcosa può essere detto e qualcosa può essere fatto. Senza redenzioni, senza immagini ideali, senza happy ending eppure finalmente liberi di starsi accanto consapevoli che l’amore è un’esperienza di solitudine per la quale comunque vale la pena lottare.

 

Il filo nascosto
USA, 2017, 130'
Titolo originale:
Phantom Thread
Regia:
Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura:
Paul Thomas Anderson
Montaggio:
Dylan Tichenor
Musica:
Jonny Greenwood
Cast:
Bern Collaço, Camilla Rutherford, Daniel Day-Lewis, Ingrid Sophie Schram, Jane Perry, Lesley Manville, Richard Graham, Vicky Krieps
Produzione:
Annapurna Pictures, Focus Features, Ghoulardi Film Company, Perfect World Pictures
Distribuzione:
Universal Pictures

Ambientato nella fascinosa Londra del dopo guerra negli anni ’50, il rinomato sarto Reynolds Woodcock e sua sorella Cyril sono al centro della moda britannica, realizzando i vestiti per la famiglia reale, star del cinema, ereditiere, debuttanti e dame sempre con lo stile distinto della casa di Woodcock. Le donne entrano ed escono nella vita di Woodcock, dando ispirazione e compagnia allo scapolo incallito, fino a quando non incontra una giovane e volitiva donna, Alma, che presto diventa parte della sua vita come musa ed amante.

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