Andrés Muschietti

It

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Il 1986 fu un anno non molto diverso dal 1985 o dal 1987. Anni – tutti – di illusioni marcate. Sogni transgenerazionali: per confessare, specialmente a se stessi, che oltre al denaro da esibire e da spendere e allo specchio nel quale riflettersi e piacersi, doveva pur esserci qualcos’altro. Così ci si misurava con la realtà, sfidandola. Anche al cinema. Nel 1986 uscirono sia Stand By Me – Ricordo di un’estate (tratto da Il corpo, contenuto in Stagioni diverse e pubblicato in origine nel 1982), sia It. Il film di Rob Reiner e il romanzo di Stephen King erano perfetti per un’epoca in debito di altre verità; e aprirono gli occhi a una gioventù che aveva bisogno dell’amicizia per articolare e elaborare il mondo e ogni paura che in esso trovava giustificazione (compresa, naturalmente, quella di crescere). Come avrebbero fatto le pagine di Bret Easton Ellis per la generazione post-adolescenziale, le immagini di Stand By Me e le parole di It si rivelarono fondamentali a costruire un credo e un immaginario.

Non è però un caso che King sia immediatamente dopo passato ad altro. It fu il sepolcro soprattutto su un’aria del tempo. E non è colpa sua se ancora oggi regna il luogo comune di uno scrittore-cantore dell’adolescenza e degli orrori che la modellano. Nella produzione kinghiana i libri dedicati a quell’età così delicata e così viva sono relativamente pochi. Direi pochissimi. Si tratta di un cliché critico e del lettore occasionale, aizzato per giunta dalla vulgata sempreverde che It sia il capolavoro dello scrittore del Maine. No, non lo è, non lo è mai stato, e neppure ci va vicino. È un romanzo capitale e un giro di boa, questo sì, ma il King migliore sta altrove (sia negli anni precedenti, sia – soprattutto – in quelli successivi).

La questione si fa ancora più spinosa quando a parlare è il cinema basato sulle pagine di Stephen King. Cinema tutt’altro che kinghiano: fateci caso, ma al netto di un paio di eccezioni (tra cui proprio Stand By Me), i migliori film tratti da King sono quelli per i quali il regista ha dimostrato una tale forza autonoma da mettere “in disparte” King stesso. Nessuna lesa maestà: significa capire anzitutto che il film deve essere un’altra cosa; soltanto in questo modo la pagina kinghiana viene rispettata. Pensate a Shining. Pensate a Carrie – Lo sguardo di SatanaLa zona mortaChristine – La macchina infernale. Film compiutamente, indubbiamente, creativamente autoriali (cioè kubrickiani, depalmiani, cronenberghiani, carpenteriani). Voglio essere il più chiaro e brutale possibile: Stephen King non può essere tradotto in cinema. I film ne sono un intrinseco tradimento, perché non riescono a renderne la trasparenza e il dettaglio simbolico, la chiarezza dell’immagine figurativa e la complicità “morbosa” con il lettore, se non – appunto – trasformandoli. Il che non è di per sé né sbagliato, né in malafede: ma non chiamiamolo kinghiano, per favore.

Credete sia un caso se scrittori giganti come Faulkner, Roth e King non hanno ancora visto un vero adattamento cinematografico degno delle rispettive pagine? Stesso discorso per Jean-Patrick Manchette. Fra romanzo e film non esiste obbedienza e stima migliore di quella che impone al secondo una conversione e una trasfigurazione del primo. Altrimenti si finisce come Andy Muschietti e come tanti, tantissimi prima di lui: si finisce per avere il terrore del romanzo, sentirne il peso ogni dieci minuti, lasciarsene dominare a tal punto da inseguire un’impossibile parità formale. E si finisce, in ultimo, se non a gambe all’aria, almeno con la schiena a terra, immobilizzati a rimirare estasiati una fonte troppo grossa e troppo distante, senza capire che l’abito da indossare dovrebbe essere un altro, che l’adeguamento non è un pareggiamento, che l’invenzione non vuol dire automaticamente infedeltà o addirittura imbroglio. Non c’è una sola scena di It che non sia “ispirata a”, “presa da”, “dovuta a”; non c’è un solo segno, un solo carattere, un solo gesto che non siano già dati, previsti, calcolati. It fa gli stessi errori della serie televisiva 22/11/’63: pedina King con le immagini e i personaggi, che dovrebbero essere sufficienti a “fare” e “onorare” Stephen King. Ma un film come It, così com’è, è tanto inutile quanto fuori tempo massimo: nel 1986 l’elogio dell’unione amicale e la prossimità con la paura fungevano da necessario catalizzatore di isolamenti esistenziali in uno scenario morale disastrato, oggi invece sembrano soltanto trucchi dolciastri.

Stephen King non è mai stato il poeta esclusivo della giovinezza e degli incubi che la riguardano, non è lo scrittore della nostalgia quale cifra memoriale assoluta, e non è neanche il vate di un universo ermeneutico fondato sulle creature del buio. Non è uno scrittore di genere. Non è uno scrittore horror. I romanzi di Stephen King sono libri per adulti che raccontano la vita, l’amore e la morte, e lo fanno con una spietatezza e perfino una sintesi che a molti sono purtroppo ancora sconosciute. Provate a rileggere le pagine dedicate al desiderio inconfessabile e senza nome di Rainbird per Charlie in L’incendiaria; o quelle sulla perdita e sulla mancanza di Pet Sematary. Provate a ripassare le incredibili sgrammaticature e gli stream of consciousness di Dolores Claiborne; o la scansione temporale di Il miglio verde; o l’allucinante accartocciamento di L’acchiappasogni. Guardate come King risolve alcuni omicidi in The Dome (con una secchezza di cui sarebbe andato fiero proprio Manchette); o come si confronta con il senso della vita in 22/11/’63Joyland e Revival; o come guarda alla Storia, all’uomo e al suo essere nel mondo nella raccolta Cuori in Atlantide (in particolare in Perché siamo finiti in Vietnam), o nella serie di La torre nera, o nello steinbeckiano 1922 (contenuto in Notte buia, niente stelle).

Sapete qual è ad oggi il miglior film veramente, umilmente, sensibilmente kinghiano mai fatto? Cose preziose (1993) di Fraser C. Heston.         

It
USA,Canada, 2017, 135'
Titolo originale:
id.
Regia:
Andrés Muschietti
Sceneggiatura:
Cary Fukunaga, Chase Palmer, Gary Dauberman, Stephen King
Fotografia:
Chung Chung-hoon
Montaggio:
Jason Ballantine
Musica:
Benjamin Wallfisch
Cast:
Anthony Ulc, Ari Cohen, Bill Skarsgård, Carter Musselman, Chosen Jacobs, Edie Inksetter, Elizabeth Saunders, Finn Wolfhard, Geoffrey Pounsett, Jack Dylan Grazer, Jackson Robert Scott, Jaeden Lieberher, Jake Sim, Javier Botet, Jeremy Ray Taylor, Joe Bostick, Katie Lunman, Logan Thompson, Martha Gibson, Megan Charpentier, Molly Atkinson, Nicholas Hamilton, Owen Teague, Pip Dwyer, Sophia Lillis, Stephen Bogaert, Steven Williams, Stuart Hughes, Tatum Lee, Wyatt Oleff
Produzione:
KatzSmith Productions, Lin Pictures, Vertigo Entertainment, Village Roadshow Pictures
Distribuzione:
Warner Bros

Sette giovani emarginati di Derry, Maine, si autodefiniscono il Club dei Perdenti. Ognuno di loro è stato escluso dalla società per un motivo o per l’altro; ognuno di loro è bersaglio di un branco di bulli del posto… e tutti quanti hanno visto materializzarsi le proprie paure inconsce sotto forma di un antico predatore muta forma, che non possono fare altro che chiamare It.

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