Tairo è cresciuto e fa il domatore. Lo abbiamo incontrato quando aveva 13 anni, in quel film stupefacente che era La pivellina (2009). Lo ritroviamo a 20 anni dentro lo spazio angusto di una roulotte, che uno specchio cerca inutilmente di allargare, mentre guarda Il padrino in tv e si riempie i capelli di spuma. La sua vita è come quel vestito blu e rosso che gli sta un po' largo e lungo di maniche. È la sua gabbia stretta con i suoi animali malconci, in fondo all'inquadratura, al centro della pista di un piccolo circo in decadenza.
Altro che documento o pedinamento o cinema mimetizzato tra le cose della vita. Questa è messinscena, e proprio per questo è vita e realtà. Come un ferro piegato, fortunato, che Tairo porta con sé da quindici anni (verosimilmente vero), che racchiude la sua storia e la sua identità, qualcosa che bisogna perdere per trovarla davvero, magari dentro il corpo lunare (malconcio anche quello) di una contorsionista col mal di schiena.
Tizza Covi e Rainer Frimmel osservano quel mondo mentre lo raccontano (rigorosamente in pellicola). Lo raccontano mentre lo vivono insieme a Tairo Caroli, Wendy Weber e tutti gli altri, che mettono in scena se stessi, anzi, che portano la scena dentro la propria realtà. E poco importa se a volte percepisci l'imbarazzo, se noti lo scarto, se la libertà della vita senza sceneggiatura non diventa sempre verità.
Il bello di questo cinema non sta nella sua verosimiglianza, nel fatto che la “fiction” si inchini al “documentarismo”, ma nel modo in cui la realtà e il cinema si incontrano sul crinale della vita, che è un'emozione trovata e una metafora ricercata, è recita e improvvisazione, è un esercizio di consapevolezza.
Fango, fatica, strade di periferia, litigi tra vicini per la corrente elettrica, fare spettacolo e pulire le gabbie, recitare e smontare il circo, uomini e animali che vivono insieme, rabbia, ignoranza, vitalità, orgoglio, la nostalgia per un'età dell'oro (del circo) mitizzata, la famiglia e gli affetti, la vita nomade, i tarocchi che dicono la verità, l'orango che ha recitato per Fellini, Celentano e Dario Argento, lo zio che canta Batticuore. «Prova a guardare la luna come la guarda un poeta». La meta del viaggio è Arthur Robin, il primo Mister Universo di colore (anno 1957), che a 87 anni è un uomo semplicemente splendido, innamorato, felice.
Ecco il Graal. Ecco che trova un senso la strada che sembra scendere e invece è in salita (o viceversa). Il paradosso del tornare indietro per andare avanti (e viceversa). Del fare cinema mentre racconti la vita.
Un domatore di leoni è triste e la sua vita non gli piace più come prima. Decide di partire alla ricerca di qualcosa di diverso.