La meravigliosa libertà di Agnès Varda! La sua sincerità commovente. La leggerezza e l’allegria con cui fa cinema, e poesia, e memoria. Qui la questione non è mettere in scena una storia o un’idea, non si tratta di trasformare in film un soggetto, un progetto, una qualche morale o messaggio all’umanità. Il cinema ormai aderisce al suo corpo e ai suoi pensieri, sembra nascere mentre lo guardiamo (lo viviamo insieme a lei), è un’invenzione continua, che crea le sue regole in corso d’opera, reinventandosi instancabilmente, lasciandosi andare alla deriva delle digressioni (è un film che si diverte a smentire se stesso).
Stavolta si parte dall’incontro con l’artista JR, “fotografo di strada”, autore di gigantesche immagini che diventano murales. E il cinema-diario della Varda, che è vivo, vitale, mobile, malleabile, si lascia contaminare, dialogando (alla pari) con la sua arte e il suo strumento prediletto (d’altra parte lui è un fotografo che ha fatto anche un film e lei è una cineasta che ama la fotografia). Ed ecco un viaggio attraverso la Francia, utilizzando un camion che è un occhio che guarda, una macchina fotografica con le ruote (sviluppa gigantografie partorite da una fessura sul fianco). Ed ecco una nuova occasione per incontrare luoghi e storie, per testimoniare la vita semplice di persone e comunità che resistono.
Tutto comincia da una chitarra da accordare, perché questo cinema informale nasce così, direttamente sulla scena, mentre si fa cinema. Da un elenco infinito di nomi e cognomi, persone che bisogna ringraziare, perché il film esiste grazie a loro, non sono solo un pretesto per fare un film. Da disegni animati che evocano lo spirito felicemente infantile di Agnès, l’anima giovane di questa signora di 88 anni, che ha la curiosità e l’energia di una ragazzina, e del suo compagno di giochi 34enne. La musica all’inizio è quasi un carillon, poi diventa un folk-blues in onore del road movie agreste e proletario, per arrivare a una melodia malinconica, quando alla fine del viaggio si evoca la fine di ogni cosa (la morte) e il corto circuito di vita e cinema ci porta fino alla casa di Godard (aprirà o non aprirà all’amica venuta a incontrarlo e coinvolgerlo nel suo film?).
In questo film nomade, rapsodico, pieno di immaginazione, capita di commuoversi fino alle lacrime, insieme alla signora che non vuole abbandonare la sua casa, dentro l’epopea dei minatori nel nord della Francia. Capita di ballare e di cantare, di ridere insieme ai due amici artisti che si prendono in giro e si vogliono bene. Capita di rimanere ammirati dal modo in cui dialogano luoghi, volti, fotografie.
Siamo dalle parti del magnifico Les Plages d’Agnès, dentro quella grazia e tenerezza. Di fronte a questo cinema, tutto il resto diventa improvvisamente grigio, arido, artificiale.
Varda e JR, che collaborano alla regia, si mettono in viaggio con un unico liberatorio obiettivo: in ciascun luogo visitato JR creerà giganteschi ritratti in bianco e nero degli abitanti che andranno a ricoprire case, fienili, facciate di negozi, ogni superficie libera. Così facendo, doneranno grandezza a quelle persone. Non una grandezza da supereroi, ma una grandezza umana, da persone in carne e ossa quali sono.