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Sono, dunque filmo

A evocare oggi Godard e i suoi film si rischia il sarcasmo o l’idolatria. Sembra non esistano altri atteggiamenti possibili se non la facile ironia di chi non è capace di vedere l’evidenza di quello che il regista ci mostra oppure l’inutile fanatismo di chi vorrebbe trasformare ogni suo fotogramma in capolavoro (nonostante lui stesso abbia voluto dichiarare che «ho fatto bene delle parti, ma raramente dei film interi»). Pare impossibile trovare altri modi di porsi di fronte a un regista che in sessant’anni di attività ha costruito una delle immagini di marca più forti e resistenti della storia del cinema, ma anche una delle più contraddittorie e sfuggenti. Perché con tutte le sue opere - più di un centinaio, di tutti i formati e le lunghezze possibili - Godard ha costruito «una specie di foresta magica in cui ci si perde a piacere» (la bella definizione è di Jean-Marie Frodon), dove ognuno può trovare quello che vuole e nello stesso tempo il suo contrario, la tesi e la sua antitesi. E non per scarsa coerenza o poca lucidità intellettuale, ma perché una delle poche certezze che Godard ha fatto sua è proprio che dagli opposti può nascere la scintilla capace di far avanzare il pensiero (e il cinema). Insegnamento hegeliano riletto da Marx ma anche disposizione caratteriale: «Ho sempre avuto un forte spirito di contraddizione, dipende dal modo in cui sono stato educato – ha dichiarato ad Alain Bergala. – Mi dicevo: loro dicono “verde”, ma non potrebbe essere il contrario? Bazin diceva “piano sequenza”, io mi chiedevo se nel découpage classico non ci fosse qualcosa di valido».

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