CINEFORUM / 14NS

Powell & Pressburger: c’era una volta il cinema

«Quando stavo crescendo a New York negli anni 40 e vedevo il logo degli Archers comparire sullo schermo, sapevo che stavo per entrare in qualcosa di unico, in un’esperienza davvero speciale», ha scritto Martin Scorsese nel 1985, nella sua introduzione a Arrows of Desire, il libro di Ian Christie su Powell e Pressburger. «Credo che nessun altro logo mi riempisse di tali aspettative di fantasia e meraviglia», continua Sorsese. «Non tanto fantasia come magia, ma vera e propria magia cinematografica. Il primo film di Michael Powell che ricordo di aver visto fu Il ladro di Bagdad. Lo trasmettevano continuamente in televisione, in bianco e nero naturalmente. E ci ho messo molto tempo per scoprire che tutti i film maker della mia generazione lo ricordavano come un’influenza formativa. Se oggi nominate Il ladro di Bagdad a Francis Coppola, lui immediatamente comincia a canticchiare la canzone di Sabu nel film, “I want to be a sailor, can’t you understand it?”».

E se fu Coppola il primo producerdirector ad “assumere” Michael Powell (esule prima in Australia e poi negli States da quel cinema inglese che aveva reso grande e che l’aveva inesorabilmente boicottato dopo lo “scandaloso” Peeping Tom) come Senior director in residence alla Zoetrope, dove collaborò all’ideazione in studio di Un sogno lungo un giorno e cominci. a lavorare sul suo progetto di un film da The Earthsea Trilogy di Ursula Le Guin (purtroppo mai realizzato), da sempre Scorsese (che volle Powell come consulente sul colore e bianco&nero di Toro scatenato) fu promotore in prima linea del genio degli “Arcieri” e attivissimo nel restauro delle loro opere. E oggi racconta la sua passione nel documentario di David Hinton, Made in England: i film di Powell e Pressburger (da giugno su Mubi), nel quale dice tra l’altro che proprio i film bizzarri e sontuosi di questa stravagante coppia anglo-ungherese potrebbero essere stati all’origine del suo ossessivo amore per il cinema (e questo può valere per molti altri, compresi Coppola, De Palma, Lucas, Tavernier e tanti critici e studiosi, come l’indefesso Ian Christie e, scusate se mi cito, io stessa). La luce, il colore, il movimento, la musica, l’energia, riassume Scorsese: come dire il cinema nella sua essenza più pura e composita.

Composita fin dalla firma in coda ai titoli di testa: “Scritto, prodotto e diretto da Michael Powell ed Emeric Pressburger”, un folle visionario inglese e un eccentrico narratore ungherese, che mettevano insieme storie di una ballerina cui le scarpette rosse impediscono di smettere di danzare, di un gruppo di suore in un Himalaya tutto genialmente ricostruito in studio, di demoni hoffmanniani e processi celebrati in paradiso, di un ufficiale inglese e uno tedesco che attraversano tre guerre su campi nemici restando lealmente amici (Duello a Berlino, quasi un “signature film” della loro lunga amicizia e collaborazione).
Storie di amori, ossessioni, follie, di gente comune e gente straordinaria, di donne e uomini divorati da passioni, di Primule Rosse e serial killer, fino all’ultimo, il cineoperatore Mark Lewis di Peeping Tom, che con la sua morbosa coazione a riprendere la morte stroncò la carriera di Powell nell’Inghilterra perbenista del 1960. Visioni incontenibili e incorruttibili, la magia del grande schermo che congiunge l’arte al pop, che a tratti si fa istintivamente kitsch o calcolatamente sperimentale, inventiva, avvolgente quando non addirittura lisergica, in un’immersione totalizzante e affabulante, dove la realtà vera è quella là, sparata dalla nostra mente e dai nostri sogni dritta nei nostri occhi. Come tutte quelle frecce che nel loro logo vanno a colpire un bersaglio alla Robin Hood britannicamente rosso, blu e bianco, ma alla fin fine un universale simbolo del piacere del cinema.