Maria. Non “la Callas”, non “la divina”, non “la diva”. Il titolo ridotto al nome proprio del personaggio; il personaggio ricondotto alla propria essenza anagrafica e non alle incrostazioni del fandom e del mito (tra l’altro a un’essenza che è elettiva, perché il suo nome anagrafico era Sofia Cecilia, e a questo solo a tre anni, all’atto del battesimo, si aggiunsero Anna e appunto Maria). Già solo in questo posizionamento tra il mito e la vita reale, il film di Pablo Larraín si scosta dal biopic che ci si potrebbe aspettare – o meglio, che si aspetterebbe chi non conoscesse il cinema del regista cileno e gli altri tre elementi di quella che che è finita per diventare una trilogia, senza essere stata pensata come tale –, qualcosa di molto diverso per esempio dal Maestro Lenny Bernstein di Bradley Cooper: niente aggiunte prostetiche per Angelina, nessuno sforzo per truccarla oltre il necessario, e, soprattutto, nessun tentativo di nascondere quello che lei stessa ha scelto di modificare o enfatizzare del proprio volto. Eppure, dalla prima apparizione, Angelina Jolie, è Maria Callas, incondizionatamente. È il medium, il corpo transitorio, per la rappresentazione degli ultimi giorni della cantante greco-americana, morta il 16 settembre del 1977, a Parigi. Una rappresentazione che, nelle mani di Larraín e dello sceneggiatore Steven Knight è ovviamente tutto tranne che didascalica.
Il corpo e la voce
Il corpo e la voce. La carriera e la grandezza di Maria si fondano sul rapporto intrinsecamente paradossale tra voce lirica e corpo: la voce che ha l’ambizione di essere musica assoluta (nel senso etimologico del termine, svincolata) e per lib(e)rarsi, per sganciarsi dalla materia, ha un bisogno disperato della stessa, di uno strumento che è un corpo vivo, e non mera cassa di risonanza, e non a caso il film si apre e si chiude seguendo le sorti di un pianoforte a tutta coda da spostare, ingombrantissimo, un posizionamento che non va mai bene, rispetto alle esigenze di Maria, e che sarà in scena fino al suo ultimo respiro. Quella della Callas è una voce la cui unicità risiede innanzitutto nel timbro, che anche nei passaggi sovracuti, di agilità, sembra portarsi appresso un residuo fisico, una memoria del corpo, una inconfondibile sprezzatura dovuta molto probabilmente a una primissima mala-educazione newyorkese, a una non meglio identificata maestra Sandrina che le avrebbe insegnato da preadolescente una tecnica “francese”, “di testa”, nasale, rimasta poi come una velatura su tutta la sua carriera. Un timbro e un’estensione anomali, che hanno fatto coniare per lei il termine di “soprano drammatico di agilità”, anche se la Habanera di Bizet, la celeberrima aria da Carmen, è scritta per mezzosoprano. Non è un caso che questa eccezione per il range estesissimo della voce della cantante occupi uno spazio speciale nel caleidoscopio di flashback, flashforward e immagini oniriche ordito da Knight e Larraín: l’amour oiseau rebelle dell’opéra-comique di Bizet è traccia ricorrente, l’eco di un trauma difficile da ammettere, la Rosebud di Maria, tre o quattro note di musica, scartata l’ipotesi di una carineria e forse anche di qualcosa in più, intonate per un soldato tedesco nell’Atene occupata dai nazisti, sotto lo sguardo mediatore, impietoso e contabile della madre Evangelia.
È una voce di cui parliamo al presente, quella di Maria, perché documentata da decine e decine di incisioni ufficiali e registrazioni pirata e perché a tutt’oggi, sulla più diffusa delle piattaforme d’ascolto musicale (sicuramente disertata dai melomani d.o.c. ma una volta che si sia fatta la tara a questo, la proporzionalità corrobora la statistica), conta decine di milioni di ascolti, proprio con la Habanera nettamente in testa alle preferenze. Larraín invita quella voce ad abitare un altro corpo, quello dell’attrice, dell’altra diva, Angelina Jolie, che per sua stessa ammissione non aveva mai cantato prima, e aveva sempre considerato l’opera lirica un’arte elitaria: per l’occasione prende classi di canto, studia le registrazioni e le lezioni della stessa Callas, impara un metodo, una disciplina rigorosa, uno straightjacketing, una “camicia di forza” concettuale per imbragare il personaggio, fare propria quella voce, per entrare in connessione con essa, e soprattutto con l’anima che l’ha generata.