Il 13 marzo 2025 Netflix ha pubblicato i quattro episodi di Adolescence, ciascuno dei quali è girato in un unico piano sequenza. La serie racconta di un tredicenne britannico che appartiene alla cultura incel e frequenta la manosphere, uccide per futili motivi una coetanea, viene arrestato e fa ricadere le conseguenze delle proprie azioni su tutta la famiglia.
Nemmeno due settimane dopo, il 26 marzo, Apple Tv+ ha messo online i primi due episodi di The Studio, e poi uno a settimana fino a dieci complessivi: ogni episodio è costruito come una successione di long take e il secondo, The Oner, è fatto di un unico piano sequenza che racconta la realizzazione su un set cinematografico di… una scena in piano sequenza. Perché The Studio, ideato e diretto da Seth Rogen e Evan Goldberg, è una satira ad alto tasso demenziale sul mondo del cinema hollywoodiano, sui suoi feticci e i suoi capricci. Conseguenza: Adolescence si è trasformato in un fenomeno di massa, a cui tutti (pubblico e critica) si sono sentiti in dovere di dedicare attenzione e plauso entusiasta, per quanto l’intero progetto (sia a livello tematico che linguistico) si riduca a poco più di una carinissima trovata (che si prende decisamente sul serio), mentre The Studio è rimasto un piccolo guilty pleasure, e in effetti è una carinissima sciocchezzuola, un Call My Agent o un Boris ricchissimo, con Martin Scorsese e Ron Howard in cameo.
Considerazione: il piano sequenza non è, necessariamente, una cosa seria, ma può diventarlo, terribilmente.
L'incrocio ineluttabile
Per André Bazin, a partire da Welles, è il punto di rottura tra il cinema classico e quello moderno, la frantumazione della trasparenza, il superamento della disgregazione del rapporto tra spazio e tempo, un’irruzione di realtà (sempre anti-realista: lo spettatore non è mai lì) e una dimostrazione dell’ambiguità del reale; per Christian Metz è un “sintagma autonomo”, per Pier Paolo Pasolini è indissolubile dallo sguardo della soggettiva. Per ogni regista «the oner is the ultimate cinematic achievement…It’s like the perfect marriage of artisty and technicality», oppure «It’s just a director jacking off while making everyone else’s lives miserable» (in entrambi i casi: da The Studio).
Girare un intero episodio in piano sequenza (Mr. Robot, The Bear) o inserire almeno una lunga sequenza in continuità (Boardwalk Empire, Game of Thrones, Daredevil e Born Again, Succession, How I Met Your Mother, Gangs of London, The Office) è ormai un vezzo frequente della serialità contemporanea, ma i quattro capitoli di Adolescence possono essere usati come un compendio ideale delle funzioni della modalità di ripresa che costringe lo sguardo dello spettatore a confrontarsi con la realtà senza la possibilità (liberatoria) dello stacco di macchina. Perché il piano sequenza è sempre una forma di prigionia, di rapimento, la messa in scena di una condanna senza scarto, un embedding drammatico o un gioco (erotico) di bondage.
Nel primo, gli agenti di polizia irrompono nella casa e nella vita del giovane protagonista Jamie e della sua famiglia, lo strappano alla confortevole linearità domestica e lo conducono nella stazione di polizia, per metterlo a confronto con il passato (e la colpa). Collocato in apertura del racconto, innesco dinamico e narrativo, rimanda alla forma dell’incrocio perfettamente codificata nell’apertura de L’infernale Quinlan di Orson Welles, cristallizzazione del piano sequenza come ineluttabilità della sorte, che mette in relazione traiettorie esistenziali differenti: la macchina da presa, collocata su una gru, segue due coppie di personaggi, accarezza la coreografia degli incontri (di automobili, carretti, passanti sconosciuti), travalica il confine (geografico e sociale), supera lo spazio orizzontale e quello verticale, e alla fine costringe al confronto.
La stessa form(ul)a adottata da Brian De Palma in Omicidio in diretta, con l’orchestrazione della morte intorno a un incontro di boxe (metaincontro, falso, truccato, sempre fuori campo), l’accumulo delle distrazioni che portano lo sguardo di Nicholas Cage, e dello spettatore, a perdere apparentemente l’attimo in cui la realtà irrompe (lo sparo, il pugno) ma che in realtà lo preparano a incrociare l’attimo rivelatore (il pugile che si alza dal tappeto). Sul versante ludico, ben prima del Damien Chazelle di La La Land e Babylon, Robert Altman ne ha fatto la cifra definitoria del suo esergo narrativo, da I protagonisti, in cui si parla di tutti gli altri piani sequenza, come in The Studio (realizzarne uno significa sempre citarne un altro) a Il Dottor T e le donne, esercizio giocoso di costruzione del mondo. In Licorice Pizza, Paul Thomas Anderson lo usa come sigillo parentetico della relazione tra Gary e Alana, prima alternandone tre all’autonominazione del soggetto innamorato che si presenta, e poi, in chiusura, a sancirne il riconoscimento da parte dell’oggetto d’amore che lo “chiama”.
Nel secondo episodio, gli agenti si recano nella scuola media frequentata da Jamie e interrogano tutti quelli che avrebbero potuto sapere qualcosa sull’evento e che hanno, consciamente o inconsciamente, rivolto lo sguardo da un’altra parte. È la figura del piano sequenza come forma dell’impossibilità di comprendere (a livello scopico prima che cognitivo) l’immagine incommensurabile, l’immagine dell’orrore: Il figlio di Saul di László Nemes, 1917 di Saul Mendes e La zona d’interesse di Jonathan Glazer esercitano in modi differenti la stessa prigionia del punto di vista.