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L’immagine della carne Il body horror di ieri e di oggi

Il body, nell’horror, non è mai soltanto carne. Difficile intuirlo negli anni 80, quando il New Horror è praticamente tutto sul corpo, per il corpo, addosso al corpo, dentro il corpo, sia nelle elaborazioni più autoriali (Cronenberg, Carpenter eccetera), sia nelle saghe pop (i Venerdì 13, i Nightmare eccetera). Come è noto, durante la reaganomics, quindi durante il culto dell’io e la me generation, è il corpo (umano) che nell’horror subisce gli urti più decisivi: piegata, sbriciolata, trasformata, la carne non è mai stata così investigata; non è mai stata così inquisita e condannata. Eppure è già qui, in questa decade problematica e ricca, che il cinema di genere intuisce una realtà che oggi diamo per scontata: anche le immagini sono body. Dunque sì, il corpo, però anche la non-materia, il pixel, la virtualità. Michael Crichton è uno dei primi ad arrivarci, con Troppo belle per vivere: è solo il 1981, ma il suo mondo di repliche e di verità finzionali, in larghissimo anticipo sui tempi e ovviamente prerogativa esclusiva della mente criminale più irresponsabile (che nel film ha il volto di James Coburn), sembra già oggi. Ma, appunto, non lo si può intuire, o quantomeno lo si sottovaluta enormemente, giacché è l’epoca di Jason e di Freddy, e dell’uomo-thing da rimodulare (e, così facendo, distruggere).

Perciò il body, da subito, è nell’horror quella cosa che si vede e che si tocca. E che negli anni 80 si regolarizza creando per sé un sistema di segni, anche grazie alla critica, che si accorge che nel genere il corpo è adesso un’urgenza. Tuttavia il body horror non nasce con Scanners e Re-Animator, come evidenzia la lista di titoli che segue. L’uomo va incontro a profonde mutazioni a partire dagli anni 70, in pieno boom dell’horror politico. E non si tratta semplicemente di corretti precedenti d’autore (vedi l’abituale Cronenberg): è il cinema horror tutto a intercettare la necessità del corpo di essere non soltanto torturato e massacrato come in Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, ma anche scomposto e ricomposto, in previsione di nuove sembianze, nuove ipotesi.
In The Mutations (1974) di Jack Cardiff, ad esempio, il mad doctor di turno ha l’ambizione di creare piante-umane e uomini-pianta (con le radici). Accadeva anche, invero, in tempi non sospetti: in Matango il mostro (1963) di Honda Ishir? è la natura, in assenza dello scienziato pazzo, a prendersi la responsabilità di alterare l’umana specie; ancor prima, in L’astronave atomica del dottor Quatermass (1955) di Val Guest la sacralità intemerata di un uomo dello spazio è inquinata da un misterioso e inarrestabile morbo che ne corrompe mostruosamente le sembianze (come in L’uomo di cera, che della celebre science-fiction della Hammer è una specie di remake non dichiarato).

Dall'uomo all'immagine

Il primo body horror, dunque, riguarda primariamente il soggetto. È la persona che ne patisce le conseguenze, con buona pace di Crichton. La critica più appassionata sta al gioco, e insiste solo sulla carne, sempre la carne. Non può fare altrimenti, considerato che i cineasti più interessati all’argomento è proprio lì che proseguono il loro discorso, sul corpo in quanto carne. Non è probabilmente casuale se l’ultimo film cronenberghiano a lavorare sul body di carne sia eXistenZ, che è del 1999, a fine decennio, a fine secolo, e finanche a fine cinema, quando cioè le immagini, la loro produzione e il loro uso stanno cambiando definitivamente con l’avvento dell’alta definizione. Eppure è proprio lui, Cronenberg, che qualche anno prima, con M. Butterfly (1993), presuppone l’impossibile, ovverosia l’idea che a proposito di questo benedetto body a conti fatti possa essere solo una questione di apparenza, di illusione. Quindi, di immagine. Non qualcosa destinata a essere vista e palpata per essere creduta, bensì qualcosa che si osserva ma a cui basta esistere unicamente come congettura, come fantasia, per essere vera.

Allora non dobbiamo meravigliarci se il body horror, inteso nel suo accurato significato-base, finisca, quantunque non ufficialmente (nessuna storia del cinema, peraltro, ne ha mai decretato né un inizio, né una conclusione), con il giro di boa tra vecchio e nuovo secolo. Nel momento in cui fare cinema e vedere cinema cambia radicalmente: cambia il metodo e cambiano il gusto, l’attenzione, il desiderio degli spettatori. E cambia anche, di conseguenza, la critica: il body horror sparisce dai (suoi) radar, mentre fa il suo ingresso prepotente, in una costante e inevitabile gara all’etichettatura, il torture porn. Ma in verità Hostel (2005) di Eli Roth e le circonvoluzioni sadiche di Saw – L’enigmista (2004) di James Wan e relativi sequel non fanno che aggiornare il body horror a una nuova estetica e a una nuova estasi della crudeltà: è sempre il corpo in quanto carne a essere dilaniato, variato. In particolare, la saga di Jigsaw entra a gamba tesa nel recupero e nel rinnovamento tanto delle follie della mad science quanto dell’incistamento di elementi altri nel corpo umano caratteristico di alcuni body horror cyberpunk come Tetsuo. Ciononostante, si tratta di uno stallo, poiché sembra essere per l’ennesima volta la carne, continuamente la carne, continuamente il corpo di carne, il centro di qualunque narrazione, anche critica. E invece l’HD ha già spostato il nostro sguardo, e chi lo dice che il body non possa riguardare anche la documentazione (falsa) del found footage, nato con The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair (1999) di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez, e reso archetipo da Paranormal Activity (2007) Oren Peli, una grande opera rivoluzionaria naturalmente vilipesa dai paladini dell’intervento autoriale più determinato (sono celebri le parole di Dario Argento, che attacca e sfotte pubblicamente il film)? Il found footage migliore coglie il suo presente e guarda avanti, al nostro oggi, e intuisce la verità più recente: se parliamo ancora di body horror, nel 2025, è perché non è più (solo) la carne a esercitare una performance, ma anche le immagini.