CINEFORUM / 2NS

Un latte di soia da Starbucks

Un’importante casa di distribuzione di cui al momento non posso fare il nome ha messo in piedi un progetto di riedizione di alcuni dei capolavori della storia del cinema. Opportunamente rivisti e corretti.
Con la solerzia che mi contraddistingue ho subito messo il mio tempo e le mie modeste capacità a disposizione di questa titanica impresa. Come primo film mi è toccato in sorte di “rivedere” Colazione da Tiffany di Blake Edwards.

Il film non presenta particolari problemi se non per il fatto che fumano tutti. Fumano Hepburn e Peppard nella prima serata che passano assieme, quando lei sale per la scala antincendio e scopre che lui fa lo scrittore, ma non ha neppure il nastro nella macchina da scrivere (dal minuto 18:09 al minuto 23:32 della versione originale). Ovviamente si fuma durante il party nel quale Hepburn ostenta il suo iconico, lungo bocchino nero. Si va dal minuto 26:47 fino a 39:32 e non c’è modo di salvarne neanche un pezzetto. Perdiamo un quarto d’ora di divertimento, ma ci guadagniamo in salute. Al minuto 45:15 Peppard esce di casa per farsi pedinare da Doc Golightly e si accende una sigaretta. Quindi si fuma al Greyhound (in questo caso sia Hepburn che Peppard) (min: 57:20 – 57:46) al momento della partenza di Doc e successivamente (58:08 – 59:13) nel locale in cui Hepburn si ubriaca. Non contenta Hepburn fuma anche al ritorno a casa (1:01:25 – 1:03:49). Al minuto 1:07:22 è Peppard a fumare mentre le mostra l’assegno che ha ricevuto. Ed è sempre lui con la sigaretta in bocca (min. 1:24:45) mentre corre dietro a una ragazza per strada scambiandola per Holly. Quindi i due fumano andando in giro per la città (min. 1:36:55). 
Poi Hepburn fuma al commissariato mentre i reporter la interrogano (1:40:00). Peppard fuma al bar durante la telefonata con O.J. Berman (1:41:00). E lei fuma quando esce la mattina dopo dal commissariato (1:43:00) pronunciando la memorabile battuta mistilingue «Quelle night!». Naturalmente s’accende una sigaretta anche in taxi (1:51:00) mentre ascolta il pippone insopportabile di Peppard e la getta via solo quando deve scendere e soltanto perché piove.

A parte la questione del fumo, l’altro punto debole è il personaggio del fotografo giapponese Yunioshi che è ovviamente caricaturale e presenta chiare tracce di quello che gli americani chiamano racial slur, ovvero discriminazione razziale, quindi dovrà essere cancellato in toto.

Eliminate tutte queste scene, il resto del film è quasi accettabile.

Con l’eccezione di un momento cruciale, al minuto 7:43, quando Hepburn apre il frigorifero per dare del latte al gatto e ne versa anche per sé in un vezzoso calice corto. L’azione è appena accennata, ma il senso della scena è chiarissimo. Ora noi sappiamo che il latte è letale per il gatto adulto (ma anche per l’essere umano adulto) e quindi la scena va cassata.

Da piccolo ho avuto sempre gatti per casa. Ogni volta che s’approssimavano ruffiani e suadenti io mi affrettavo a riempire la loro ciotola del latte che loro poi lappavano tra grandi fusa e manifestazioni di tripudio. I miei gatti devono essere stati dei grandi attori. Probabilmente due minuti dopo correvano in bagno a vomitare. Ma oggi sappiamo che il latte è una sostanza pericolosa e quindi non possiamo fare a meno di tagliare. 
Questo tra l’altro spiega finalmente il vero significato della sequenza del Sospetto in cui Cary Grant porta un bicchiere di latte a Joan Fontaine e noi trepidiamo nel dubbio che la voglia uccidere e le stia portando del veleno. Non c’era nessun veleno nel latte! Era il latte il veleno! (Ma di Hitchcock ci occuperemo in una delle prossime occasioni.)

Tagliata la scena del latte, già che ci siamo, potremmo tagliare anche il gatto. Chi ci assicura che il gatto non sia stato costretto con subdole lusinghe o, peggio, con pesanti coercizioni a recitare le scene di cui è protagonista? Anche nella versione originale non compare da nessuna parte la scritta «Nessun gatto è stato maltrattato, blandito o torturato durante la lavorazione di questo film». Dunque come facciamo a essere sicuri che i suoi diritti siano stati rispettati? Nel dubbio meglio farlo scomparire completamente. A questo proposito c’è una sequenza deliziosa (purtroppo da tagliare) di Effetto notte in cui un gatto si rifiuta di interpretare il ruolo che gli è stato assegnato. (Ma anche di Truffaut ci occuperemo in una prossima occasione.) (Non posso fare tutto io in un giorno solo.)

Espunto il gatto dalla storia si pone il problema di cosa vadano a fare sotto la pioggia Hepburn e Peppard in un vicolo buio di New York nella scena finale. La soluzione è semplice. Basterà far capire allo spettatore che Hepburn ha perso il cellulare e l’ha perso proprio lì, negli anni 60, in un vicolo buio di New York, proprio mentre piove. Del resto chiedete a un qualunque adolescente e vi dirà che la perdita di un cellulare è un evento ben più traumatico della scomparsa di un gatto.

Emendato così, secondo le linee appena esposte, il film di Blake Edwards non presenta altri problemi di ordine etico, alimentare o giudiziario.
Certo, quel che resta è una mezz’oretta stenta di sequenze che non s’azzeccano l’una con l’altra, ma la morale è salva. E comunque per combattere il prevedibile disorientamento dello spettatore (e anche per raggiungere un minutaggio compatibile con l’esborso del biglietto) basterà aggiungere una voce fuoricampo che provveda a colmare alcune delle lacune.

E come immagini basterà andare a ripescare quei filmati standard che la Rai utilizzava negli anni 60 come intervallo tra un programma e l’altro. In una parola sola: pecore. Ma avendo cura di far scorrere in pancia la scritta: «Nessuna pecora è stata maltrattata, vessata o stuzzicata durante la realizzazione eccetera…».

L’operazione non dovrebbe attirarci problemi di tipo legale. È vero che non siamo in possesso delle loro liberatorie, ma è anche vero (e non venite a dirmi che sono un cinico) che con ottima probabilità tutte quelle pecore ormai sono morte. E non credo che le loro discendenti siano così ardimentose da venire a farci causa.

Anzi, facciamo cosi. Giusto per stare dalla parte dei bottoni. Dichiariamo che non si tratta di pecore vere, bensì di pecore elettriche. Magari sognate da qualche androide.

P.S. Come segno tangibile di riconoscenza nei confronti del nostro sponsor che così munificamente ci accompagna in questo arduo e lungo lavoro di revisione della storia del cinema, io e i miei datori di lavoro abbiamo pensato di modificare leggermente la vecchia dizione Colazione da Tiffany a favore di un ben più vigoroso e pregnante Un latte di soia da Starbucks. Che è dunque, disgraziatamente, il nuovo titolo del film.