CINEFORUM / 506

Carne da spettacolo

La graine et le mulet (Cous cous, 2007) si chiudeva con la spasmodica alternanza di due spettacoli simultanei: il primo, destinato a uno sparuto pubblico di carnefici – i giovani teppisti che si divertivano sadicamente ad assistere all’affanno e all’umiliazione del vecchio Slimane, costretto a inseguirli a piedi nell’inutile tentativo di recuperare il motorino che gli avevano sottratto – il secondo, offerto agli avventori del ristorante sulla barca dello stesso Slimane, dove Rym si esibiva nella danza del ventre per guadagnare il tempo necessario a cucinare dell’altro cuscus, dopo che quello destinato alla cena era stato erroneamente portato via. Due spettacoli e due corpi esposti allo sguardo altrui. Il corpo trionfante della radiosa e florida Rym, che si esponeva a uno show improvvisato, e il corpo sfinito, spossato del quasi vecchio Slimane, che finiva per accasciarsi a terra in una probabile agonia. Il primo spettacolo finiva per rendere vano il secondo, che avrebbe dovuto salvare la vita di quello stesso uomo che la stava perdendo sulla strada.
Ma lo show più atroce è, evidentemente, lo spettacolo che va in scena per due volte nel Museo di Anatomia. La prima volta, con la scusa di esperimenti scientifici di dubbio valore, Georges Cuvier e i suoi assistenti tentano di violare la dignità di Saartjie, costringendola a mostrare la conformazione anomala del suo sesso, mentre la seconda approfittano impunemente del suo decesso per finalmente spogliarla, aprirla e sezionarla a piacere dappertutto.
Ma il rituale dello spettacolo – che in Venere nera è oggetto di variazioni sul tema che devono la loro forza anche alla ripetizione e all’accumulazione, di girone in girone – a Kechiche interessa soprattutto come una dimensione dove è il corpo a parlare, con il suo respiro e la sua opacità. Già in L’esquive (La schivata, 2003), la preparazione di uno spettacolo studentesco da Marivaux costituiva il laboratorio dove si affrontavano i due corpi diversi e apparentemente incompatibili del beur Krimo e della francese Lydia: la carne scura si innamorava di quella bianca, che lo rendeva oggetto di una dinamica sadomasochista.
Il corpo di Saartjie è un corpo diverso e quanto più lo è, tanto più provoca le reazioni rivelatrici di chi la guarda. Lo sguardo di Kechiche percorre la teoria di volti del pubblico della fiera londinese (e poi dei salotti parigini), scoprendo via via espressioni di ebbrezza, eccitazione, curiosità, ripugnanza, perfino pietà, insomma una gamma di passioni provocate dall’esibizione del diverso che tracciano un quadro allusivo di che cosa sia la società civile di noi spettatori.
La maschera del padrone sudafricano Caezar, è invece compresa in un ruolo che recita proprio perché si trova lì, sulla scena, per sfruttare l’“esotismo” di Saartjie: un’infima scenetta dove (come l’Antonio Focaccia di La donna scimmia [1964] di Ferreri) si ritaglia la parte dell’eroe bianco che ha battuto la giungla misteriosa, riportandone come trofeo una bestia rara e pericolosa, la Venere Ottentotta, che ora dimostra di avere domato rendendola docile ai suoi ordini. Kechiche mostra e confronta ripetutamente, in piani ravvicinati, la carne animalesca del padrone, inconsapevole della propria abiezione e compreso nella dignità che crede di avere. Si potrebbe dire che, a differenza della sua vittima, egli non sa di essere quello che è. Kechiche non giudica Caezar ma lo mostra nell’esuberanza ottusa e sanguigna del suo corpo, che cerca sempre di dominare sia la scena che il prossimo. All’improvviso la mdp sorprende Caezar quando rimane interdetto di fronte all’improvvisa rivelazione del talento di Saartjie: la donna canta con voce tale, con una malinconia così profonda da imporre alcuni istanti di silenzio anche al pubblico di quella fiera. È uno dei momenti più strazianti del film, perché alla scoperta della vocazione della donna corrispondono, come un fenomeno prima fisico che psicologico, il disorientamento e la brutalità di chi è invece sprovvisto di qualsiasi talento e sta già pensando a come impedire che gli si rubi la scena. Tutto ciò passa attraverso la massa del volto di Caezar, la prepotenza dei suoi gesti quando rimane solo con Saartjie. In tribunale, rimarrà stupito dalle accuse che gli rivolgeranno, ma contemporaneamente Kechiche mostra anche l’ambiguità di Saartjie, che si sottomette al gioco del suo padrone in piena coscienza, probabilmente credendo alle promesse e alle illusioni con cui l’ha plagiata la sera prima. Il confronto fra le maschere dei giudici e l’atonia rassegnata della donna rende concretamente visibile l’abisso di cultura e storia che separa i primi dalla placida sottomissione della seconda, una passività che è insieme la sua colpa e la sua tragedia.
È anche dotato di un senso più acuto dello spettacolo, e lo organizza con maggior astuzia di Caezar, calibrandolo a seconda del pubblico cui è destinato (il passaggio alla proprietà di Réaux coincide con l’esibizione della donna agli sguardi del pubblico borghese e aristocratico parigino). Nei piani che ritornano sul volto di Réaux e sui gesti che compie (quando si mette in groppa alla donna invitando poi un astante a imitarlo), è evidente la piena consapevolezza dei tempi e degli effetti dello spettacolo da consumarsi su quel corpo. Kechiche alterna le inquadrature in cui mostra i suoi piccoli occhi illuminati da un’astuzia aguzza e li confronta allo sguardo sempre più abbruttito e spento di Saartjie. Da regista esperto, Réaux dota la donna di un costume di scena più appariscente di quello che aveva nelle fiere con Caezar (rosso, anziché color carne), in effetti ancora più umiliante, perché agghindandola di monili e gioielli la fa apparire un relitto di regina in cattività.
Infine il corpo di Saartjie è confrontato ad altre due figure di minor peso narrativo: un giornalista, incalzante e ipocrita, che rimane deluso dalla misera e triste storia della donna e ne inventa un’altra fasulla, più accattivante per il pubblico dei lettori. Contraltare del giornalista è il disegnatore Jean-Baptiste Berré, che dona a Saartjie un ritratto delle sue sembianze da viva, e da morta ne plasma il calco. Un testimone che Kechiche ha emendato da ogni possibile retorica, riflettendovi forse il ruolo di se stesso.