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  • CINEFORUM 507
  • Tra Faust e Jung

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CINEFORUM / 507

Tra Faust e Jung

  • Bruno Fornara

 

></a>Considerazioni iniziali. Conferma della linea, giusta, da qualche anno affermatasi in tutti i festival, anche a Venezia, che si deve mostrare di tutto, cinema alto e basso, popolare e colto, ricco e povero, rozzo e pettinato, narrativo e anarrativo, di finzione e documentaristico, di finzione documentaristica e di documentarismo finzionale. Film di qualsiasi specie religione sesso etnia provenienza fattura: e ormai si può evitare di star lì a raccontarsela riprendendo ogni volta, per l’ennesima volta, con finta meraviglia, discorsi ormai stantii, tipo: ah! questo film mescola finzione e realtà, ah! quest’altro mescola alto e basso, ah! questo qui mescola mise en scène classica moderna postmoderna primordiale. Facciano un po’ i registi quel che vogliono: basta che il film sia un buon film (e qui la critica dovrebbe riuscire ad argomentare perché un film è un buon film oppure no). E non stiamo neppure lì a proclamare che un film è “nuovo”: è “il nuovo”. Visto che ormai vale tutto, allora tutto può essere nuovo, nuovissimo. Non c’è più vecchio e nuovo. Ogni film è quello che è. Da questa idea di Mostra come luogo dove si mostra di tutto discende una seconda constatazione: gli autori migliori non si pongono più problemi di evidente riconoscibilità stilistica, non fanno film in cui si privilegia, per dire, il piano sequenza (come è stato per lungo tempo); i migliori autori possono rifarsi al classico montaggio nascosto così come a un montaggio forzato ed esposto, al piano sequenza, alla fissità, a qualsiasi altra prestazione linguistica gli passi per la testa. È tramontata l’era in cui, scegliendo un modo di fare cinema, ci si trovava più avanti e scegliendone un altro ci si trovava più indietro. Oggi, Sokurov, Polanski, Cronenberg, Diaz, Naderi, Ann Hui,Wiseman, Glawogger, Solondz o Alfredson, per nominare un bel gruppo di registi che hanno portato a Venezia dei film dal buono in su, fanno tanti tipi di buon cinema e non ha senso chiedersi se uno sia migliore dell’altro. Fine – finalmente! – dei discorsi essenzialisti sul cinema: il cinema è questo e non quest’altro, questo è cinema e questo no. Molto meglio dire: questo film di questo regista è fatto così ed è bello; quest’altro film di quest’altro regista (o magari dello stesso regista) è fatto cosà ed è ugualmente ottimo; e all’inverso: questo film è fatto come quel bel film di quel bravo regista, però è molto brutto. Lo spettatore si mette a disposizione dei film e degli autori, non sta lì a segnare con il ditino “questo sì e questo no” solo perché il film è fatto in un modo che si pensa sia giusto o sbagliato di fare cinema. Dopo questo pistolotto a favore della pluralità dei modi di fare buon cinema, veniamo agli esempi, ai film e ad alcuni registi: perché, per Sokurov, Cronenberg,Wiseman o Polanski, i modelli di regia in gioco possono essere, come in effetti sono, molto distanti fra loro e danno tutti luogo a ottimi e buoni film, diversi fra loro. A noi utilizzatori finali, questa vivace pluralità fa molto piacere. Prima, diciamo una cosa sul verdetto. Se il Leone d’oro al <em>Faust </em>di Sokurov è parso assolutamente inevitabile, non si capisce perché siano poi stati esclusi dai premi i due altri migliori film del concorso, <em>A Dangerous Method </em>di Cronenberg e <em>Carnage </em>di Polanski.Viene da pensare che la Mostra pensi ancora di dover andare in caccia di nomi nuovi (il Nuovo!) per accreditarsi una fama di scopritrice di talenti: questo potrebbe anche andare bene quando si riesce a trovarli, i nuovi talenti; se, però, si lasciano a piedi Polanski e Cronenberg e si danno premi a film che il tacere è bello, qualcosa non va. Il <em>Faust </em>di Sokurov è trascinante, in continua tensione verso un oltre che non è mai raggiunto, proprio perché è, per definizione, oltre. Quando, alla fine, Faust sotterra in una bara di pietre il diabolico e funambolico compagno e poi esce dal film davanti a un immenso ghiacciaio, è questa la parola che ci lascia in consegna: «Weiter! Weiter!». Oltre! Oltre!, avanti, di più, più lontano. Faust è, per Sokurov, uno dei fondatori (pericolosi? ammirevoli?) della modernità. Abbandona il vecchio mondo, la città, gli affari, anche l’amore, e si inoltra nei territori sconosciuti, nella terra desolata, dove si è soli a costruire, se ce la si fa, il futuro. Goethe, che fu anche pittore, ha scritto un trattato sui colori, <em>Zur Farbenlehre</em>, 1810, dove attacca Newton: i colori non sono soltanto un fenomeno fisico, ottico; i colori sono vivi, arrivano all’animo, hanno a che fare con simboli, estetica, poetiche. Sokurov dipinge il film con colori diffusi e soffusi (il volto d’oro di Margherita!): e trascina Faust in una perpetua corsa, con immagini in cui sono rispettate le dimensioni delle figure e altre immagini in cui le figure sono affilate, protese in avanti. Il film non è più un film: diventa un’esperienza sensoriale. Si fa esperienza dell’essere cinematograficamente trascinati da una forza che lascia il vecchio mondo di dei e diavoli in cerca di un’altra terra. Anche la triade di <em>A Dangerous Method</em> di David Cronenberg, formata da Jung, Freud e Sabina Spielrein, sta sospesa tra due mondi. Uno è il mondo che il film osserva, quello di fuori e di sopra, il mondo della fin de siècle dove “portare la peste” che macchierà le belle ville, l’arredamento, i giardini, gli abiti, tutti curatissimi (qualcuno ha preso l’abbaglio che questo sia un film accademico in costume…). Jung e la sua paziente amante allieva Spielrein si inabissano invece nel mondo di sotto, esplorano, come Faust, geyser che soffiano, cunicoli che percorrono le tenebre di quell’inconscio che Freud aveva appena tratto fuori a una qualche luce, inconscio che riemerge nel linguaggio, nella parola smozzicata, anche in una sola lettera fischiante. Una faticosa effe. Il film va visto in originale: perché nelle prime sedute con Jung, Sabina deve riuscire a pronunciare, per liberarsi dalla sua nevrosi, le due parole che rinserrano il segreto, e quelle parole cominciano, nell’inglese parlato nel film, con la lettera effe, e una parola è sacra e l’altra è maledetta, e lei non riesce a pronunciarle, non sa quale delle due far uscire per prima, e la bocca si storpia, il mento si allunga, f ff fff ffff, father e fuck finalmente escono e la voragine è aperta e la lava può scorrere dal vulcano psicoanalitico e lei si aggrappa a Jung e lo trascina con sé nel baratro salvifico in cui perdersi e ritrovarsi. Film immacolato e violento, sotterraneo e infuocato. Freud, in esergo alla <em>Interpretazione dei sogni </em>(1900), mise un verso dell’<em>Eneide </em>(VII, 312): «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo», se non riuscirò con gli dei celesti, smuoverò quelli infernali. È quello che hanno fatto Freud e Jung: e Cronenberg, che tra le ombre acherontee si è mosso in tanti film, è come se risalisse alle sorgenti prime del suo cinema e ringraziasse quei tre per aver aperto i cancelli delle caverne ctonie da cui sono usciti i fantasmi che abitano i suoi film. In <em>Carnage </em>di Roman Polanski siamo di fronte a un quartetto da camera cacofonico, un massacro in guanti bianchi, una prova di regia fondata sul ritmo, sulla impeccabile costruzione di una battaglia da salotto, dove la macchina da presa, nel poco spazio che le è concesso e nell’unicità di un tempo che comincia poco dopo l’inizio del film e finisce poco prima della fine – film aristotelico! – deve trovare il modo di essere lì, di non perdere nessun attimo, gesto, battuta o squillo di cellulare. <em>Carnage </em>è un perfido divertissement. Polanski lo dirige con la sicura bacchetta del maestro, e che sia del tutto suo (anche se viene da una pièce di successo) lo dichiara con la sua minima apparizione dietro la porta dell’appartamento accanto. Anche qui non c’è nessun bisogno di interrogarsi sulle scelte di regia e di stile: sono semplicemente quelle, ammirevolmente classiche, giuste per il film. Oltre la finzione. Due documentari: felicemente splendido quello di Frederick Wiseman, <em>Crazy Horse</em>, dolorosamente testimoniale quello di Michael Glawogger, <em>Whore’s Glory</em>.Wiseman arriva al Crazy Horse dopo aver filmato due anni fa il balletto dell’Opéra. Arriva e trova il film già bell’e fatto: le ballerine, il palcoscenico, i numeri, le attrazioni. Quasi si dimentica di se stesso, non sta a cercare personaggi, lascia perdere le frizioni tra il regista e il direttore artistico: si ferma stupefatto e ammirato davanti alle ragazze, ai loro balletti, alle canzoni, alle marcette. E arriva a una conclusione memorabile. Approda a un mare di fesses perfettamente rondes, di culi femminili, disposti su più file, fino all’orizzonte, ondeggianti piano come onde, un mare dove felicemente naufragare come sembra voler fare Wiseman che si è dimenticato di tutto, di ogni preoccupazione cinematografica sociale politica davanti a quell’incanto. All’opposto della felicità di Wiseman, sta la dolente constatazione della crudeltà del mondo, in Tailandia, Bangladesh, Messico, là dove le prostitute lavorano e piangono la loro sorte in <em>Whore’s Glory </em>di Michael Glawogger. Solo i titoli di altri bei film (le recensioni e le pagelle sono sul prossimo numero di «Cineforum»): <em>Le idi di marzo</em> del malinconico George Clooney, <em>Dark Horse</em> dell’inesorabile Todd Solondz, <em>Tao Jie (A Simple Life)</em> dell’amorevole Ann Hui, <em>Cut </em>del battagliero Amir Naderi, <em>Io sono Li </em>del promettente Andrea Segre (miglior film italiano della Mostra; debolissimi i tre in concorso, Crialese, Cristina Comencini, Gipi), <em>Piazza Garibaldi</em> del perplesso viandante Davide Ferrario, <em>Cime tempestose</em> della burrascosa e corrusca Andrea Arnold, <em>La talpa </em>del neoclassico Tomas Alfredson, <em>Century of Birthing</em> del luminoso Lav Diaz, <em>Texas Killing Fields</em> della paludosa Ami Canaan Mann, figlia di Michael Mann, <em>Twilight Portrait</em> della sconfortata esordiente postcomunista Angelina Nikonovna. Che bello andare a una Mostra dove i film sono tutti diversi uno dall’altro, dove non ci si deve iscrivere a una tendenza, dove si cambia occhio mentale davanti a ogni film. Dove si viene trascinati via da Faust, tirati giù da Sabina e Jung, riportati su dalla signora di Ann Hui, dove si naufraga felicemente nel mare di culi femminili di Wiseman. Come diceva un antico filosofo: «Nun euploeka, tote nenauagheka». Ho navigato felicemente per mare solo quando ho fatto naufragio.</p>  

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