CINEFORUM / 510

Amore e morte nell' impresa di famiglia

 

C’è una scena, in Twixt, che non soltanto risolve la vicenda, ma mi sembra chiarisca pure le ragioni del film. Lo scrittore Hall Baltimore e il suo Virgilio Edgar Allan Poe si ritrovano a camminare su un dirupo; sotto, giù giù, un fiume; si siedono sul ciglio, a precipizio, e inquadrati da dietro, è come se fossero seduti in platea, loro due soli, di fronte a uno “schermo” d’acqua, il fiume stesso. Lì, su quello schermo, Baltimore vede finalmente l’incidente che ha causato la morte della figlia, e lo vede per la prima volta (lui non era sul motoscafo sul quale lei ha trovato la morte), e lo vede con la testa e col cuore. Lo vede in tutto lo splendore del “cinema”, su grande schermo, ed è una rivelazione, oltre che un’epifania. La scena si chiude con una battuta di Poe: «Our work must be the grave that we prepare for its lovely tenant», la nostra arte deve essere la tomba che noi prepariamo per il suo dolce inquilino. È noto, Coppola ha perso uno dei figli in un incidente le cui dinamiche sono praticamente identiche a quelle messe in scena. Che Twixt sia anche un atto di dolore, dunque, è abbastanza evidente. Ma la morte del figlio risale al 1986, e Twixt giunge venticinque anni più tardi. Non si vuole certo ridimensionare la portata di un’afflizione tale: però chiedersi se dopo così tanto tempo possa esserci ancora l’urgenza di parlare e di esorcizzare l’accaduto con un film, è legittimo. D’altronde, è lo stesso Coppola che prende un’altra strada, quando afferma che l’ispirazione gli è venuta dopo un sogno agitato a Istanbul. La questione del cinema come auto-seduta psico-terapeutica è dibattuta e generalmente poco gradita. Lo spettatore comune potrebbe tranquillamente obiettare che non gli importa un bel niente; il critico, dal canto suo, si ritrova a un bivio, da una parte l’adulazione autoriale, piegando la materia a tal punto da renderla perfettamente compatibile alla poetica del regista, dall’altra il rifiuto, o quantomeno il disinteresse, con il fastidio relativo di essere terzo incomodo in un monologo davanti allo specchio. Le reazioni a Antichrist di von Trier ne sono un esempio recente emblematico. Ma quella scena sul fiume e quelle ultime parole di Poe fanno pensare che Twixt sia un po’ di più e contemporaneamente un po’ di meno di una psico-sessione autogestita e autoriferita. La storia di uno scrittorucolo di romanzi sulle streghe («The bargain basement Stephen King») che nella cittadina di Swann Valley vuole trovare la soluzione a un mistero che gli si presenta in sogno, mentre nell’ufficio dello sceriffo giace il cadavere di una ragazza con un paletto conficcato nel cuore, pare servire a Coppola sia come genuflessione alla necessità e al potere della creazione artistica, sia come consapevolezza finale del bisogno di uno strappo. «Nevermore» è l’ultima battuta del film: al di là della citazione esplicita da Il corvo di Poe, con questa parola Baltimore chiude i conti con l’editore ma soprattutto con il passato. Mai più: mai più laghi con la nebbiolina, mai più streghe, mai più vampiri, è finalmente arrivato il momento di scrivere qualcosa che abbia un senso per se stessi, il momento di vivere. «I want to write something I do. I wanna write something for me, something personal. Does that make any sense?» (Voglio scrivere qualcosa che faccio. Voglio scrivere qualcosa per me, qualcosa di personale. Mi capisci?), dice Baltimore alla moglie via Skype. Non è difficile immaginare Coppola nella medesima posizione. Egli gira ancora un film, un horror gotico, e mentre dichiara nuovamente di amare questa cosa chiamata cinema più di ogni altra cosa, non può fare a meno di prenderne le misure, in fin dei conti ridotte come quelle di una bara, dentro la quale sa benissimo di dover seppellire ciò che è stato, compreso se stesso. Un paradosso, allora: sarà pure un grande schermo, ma lo spazio disponibile è piccolo e claustrofobico, giusto giusto per una persona. Non è fuori luogo recuperare le teorie del critico Edmund Wilson, che Bruno Fornara cita a proposito di Guy Maddin: «Sostiene Wilson, ispirandosi a questo mito [quello greco di Filottete, nda], che scopo della creazione letteraria è la costruzione di un arco che sani le proprie ferite. Ogni autore ha qualche ferita da rimarginare: i suoi libri, o nel caso nostro: i suoi film, non sono altro che le medicine, gli intrugli, i balsami, con cui può cercare di guarire quelle sue ferite» (1). Ma Coppola fa di più: cerca di curare la propria ferita, dissotterrandola dall’oblio dei tempi (venticinque anni), guardandola sul grande schermo, ricordando ogni dettaglio, tornando al dolore più insopportabile, e poi la tumula definitivamente, costruendoci sopra una vera e propria impalcatura artistica, un film, mausoleo immaginifico (e immaginario) che sigilla il passato e cicatrizza le lacerazioni. Nevermore! La sensazione è dunque che Twixt sia un prodotto farmacologico, un horror pensato, scritto e girato (sognato!) non tanto per lenire il dolore (un dolore) bensì per riconoscerlo, osservarlo per bene (Baltimore rifiuta di guardare il volto della vittima che giace nella celletta-obitorio, e quando lo farà, alla fine, sarà letteralmente un bagno di sangue), dargli finalmente un nome e celebrarne una buona volta il funerale. Twixt non è l’accanimento chimico a fini terapeutici di un malato in grave stato depressivo, è piuttosto il sogno di uno scienziato di poter fabbricare una pasticca in grado di sconfiggere il tumore. Davvero fabbricare: nel senso operaio, manualistico, costante, artigianale, inventivo. Twixt è cinema povero non perché confezionato con un budget modestissimo, non perché lontano da Hollywood, ma per il suo carattere di bottega, per il suo spirito casalingo. Però a Coppola non interessa più giocare con la lanterna magica, come nel suo Dracula. Casomai, egli fa ritorno a Dementia 13, che nessuno pare ricordare (più): anche là aleggiava su tutto e tutti lo spettro di una bambina, annegata in un laghetto e “riportata in vita” da un maniaco armato d’accetta; ma soprattutto c’era il bric-a-brac tipico delle produzioni cormaniane, improntate al riciclo e al riutilizzo fino alla consunzione. Intenzioni e aspirazioni sono diverse, però quest’ultimo film conserva dell’esordio del ’63 l’estro manifatturiero. Anzi, come accadeva all’epoca, anche con Twixt ci si meraviglia (la meraviglia!) di quanto sia elegante e tutt’altro che spettinato, tenuto conto delle risorse e delle aspettative. L’alta definizione spinta è utile per “ritagliare” le figure nel paesaggio da incubo (alcune apparizioni di V nel bosco non si dimenticano facilmente; e fa venire la pelle d’oca la sequenza dei bambini fantasmi che escono correndo dalla botola della cantina); mentre l’uso degli strumenti di genere – macchie di colore, ralenti, 3D (adottato per due scene soltanto, con tanto di occhialini indossati “in soggettiva” a mo’ di istruzioni per l’uso che neanche William Castle!) – trova un dosaggio e un equilibrio che sono realmente la prova di un grande regista, uno che non perde tempo, e uno che non si entusiasma nell’eccesso o per aver ritrovato una vecchia e arrugginita cassetta degli attrezzi. Francis Ford Coppola sogna ancora in grande: non ha più i mezzi di Apocalypse Now, ma non tragga in inganno l’aspetto economico di Twixt, perché a contare sono la passione e l’assoluta coscienza di campo, sintomi di libertà creativa che dà ossigeno e lo toglie allo stesso tempo, in una vertigine che pensavamo perduta, almeno al cinema (e la scena della fuga notturna in moto dell’ombroso Flamingo con V è in questo senso esemplare, un momento di cinema autonomo e sconsideratamente romantico che, chissà per quale motivo, mi ha ricordato il Léos Carax migliore). Film vivo, dunque, Twixt, di un uomo vivo e non di un sopravvissuto, di un uomo che dopo cinque lustri torna al proprio lutto più straziante non certo per immalinconirsi nella reminiscenza ma per identificarlo e interrarlo. Il film di un autore che ormai – lo sappiamo – respinge l’industria ma che si ostina ad amarne il prodotto, quello più essenziale, la materia prima, capace ancora di sorprendere. Coppola ha confessato un progetto ardito, folle e strabiliante, che gli auguro di portare a compimento, anche se non la vedo molto facile: presentare Twixt per festival e sale con un’orchestra e montarlo in diretta, così da modificarlo ogni volta e adeguarlo ad ogni occasione. Live cinema. Alive cinema.