CINEFORUM / 510

L' eroe proletario e il traditore

 

La notizia è da prima pagina, di quelle che non possono lasciare indifferente lo spettatore esigente e affezionato: Robert Guédiguian è tornato di nuovo a farsi cantore dell’epica proletaria e popolare dell’Estaque. Da un po’ di tempo in qua il regista marsigliese si era spinto su un terreno a lui inconsueto, saggiando itinerari di ricerca e modi di messa in scena non sempre consoni alle sue corde, ancorati talora alle dinamiche del cinema di genere: la biografia politica (Le passeggiate al Campo di Marte, 2005, peraltro un’opera ammirevole, benché assai lontana dall’universo tematico dell’autore), il thriller (Lady Jane, 2008), l’affresco storico-resistenziale (L’armée du crime, 2009). Con Le nevi del Kilimangiaro Guédiguian fa infine ritorno alle proprie origini, a temi a lui particolarmente cari e ricorrenti, e al quartiere marsigliese dell’Estaque in cui egli è nato e cresciuto, e dove ha ambientato la maggior parte delle sue pellicole. Proprio grazie al suo cinema, l’Estaque è diventato, nell’immaginario dello spettatore, lo spazio scenico della comunità coesa, della speranza collettiva, della solidarietà umana e di classe; una sorta di paesaggio dell’anima e, al tempo stesso, il luogo fisico della militanza politica e della dolcezza di vivere; uno scenario di orgogliosa marginalità; il territorio – insieme reale e idealizzato, rassicurante e conflittuale – del mito (della santificazione) del proletariato in lotta, portatore di un’ideologia coerente, depositario dei valori autentici dell’umano. E lungo i vicoli dell’Estaque, sulla spiaggia inondata dalla luce del sole, tra i cantieri navali e le terrazze che si affacciano sul mare, Guédiguian torna a incrociare i volti degli attori del proprio universo familiare (Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan) con sguardo che si fa vieppiù benevolo, affettuoso e partecipe ora che viene a scoprire, su quei volti, il segni del trascorrere del tempo. Non sono più giovani Darroussin e Ascaride. E i personaggi che sono chiamati a incarnare – una coppia proletaria ancora molto unita dopo trent’anni di matrimonio – hanno superato ormai la mezza età e sono prossimi alla pensione. Lui, Michel, operaio in un cantiere navale, nonché sindacalista della cgt, è stato appena messo in cassa integrazione. Lei, Marie-Claire, lavora come donna delle pulizie in casa di signore anziane e sole. Dopo anni di economie, sacrifici e rinunce (Marie-Claire sarebbe voluta diventare un’infermiera, ma ha dovuto interrompere gli studi), i due hanno saputo assicurarsi un modesto benessere e ora possono guardare al futuro con una certa serenità. Nei loro progetti c’è anche posto per un viaggio in Tanzania, alle pendici del Kilimangiaro: una vacanza offerta dai figli per l’anniversario del loro matrimonio. In passato Michel e Marie-Claire hanno condiviso gli ideali egualitari e le speranze in una vita migliore, ma inevitabilmente le battaglie politiche e sindacali, i sogni utopici di rigenerazione sociale hanno lasciato il posto a una quieta, rassegnata accettazione dell’esistente – un esistente che continua per tanti versi a indignarli, ma che essi disperano ormai di poter modificare. La canzone di Pascal Danel, un celebre motivo degli anni Sessanta che ha suggerito il titolo del film, è proprio lì a indicare «qualcosa che sta per morire, un’utopia, l’orizzonte che sfugge per sempre» (Guédiguian). Intanto, intorno ai protagonisti, i segni del malessere economico si vanno facendo sempre più palpabili. La disoccupazione cresce. I cantieri sono ormai in disarmo. Le nuove generazioni faticano a sostenere i costi della crisi. Scivolati nella spirale della miseria, i giovani diseredati che vivono nelle periferie della città vanno smarrendo, insieme alla prospettiva di un lavoro (e di un’identità lavorativa), ogni residua speranza e dignità, ogni coscienza di classe. Di qui la scelta di assumere altre forme di lotta più violente, insane e disperate, e di imboccare scorciatoie criminali e suicide. L’episodio della rapina assume, per i personaggi principali del film, le caratteristiche di una rivelazione traumatica. Derubato dei propri miseri risparmi, l’eroe proletario di Guédiguian scopre una verità impensabile e sconvolgente: il venir meno dei principi morali di classe tra coloro – i giovani diseredati, appunto – che il bisogno sospinge verso la delinquenza e un ribellismo privo di prospettive. Per Michel è uno autentico shock. Quello che egli vede crollare intorno a sé è il mito immarcescibile della sanità del popolo su cui aveva fondato tutte le sue speranze. Nello stesso tempo quello che all’uomo appare difficile da accettare è di essere egli stesso divenuto, agli occhi di chi è precipitato in una condizione di indigenza, un benestante, un borghese, e dunque un possibile bersaglio della violenza di classe. «Ma in che mondo viviamo?», si chiede Marie-Claire, sgomenta. «E perché proprio a noi?». È il cognato Raoul a fornire la risposta: «Ci odiano perché abbiamo una casa, un’automobile, un conto in banca». La reazione di Raoul, del resto, è quella di chi appare incapace di comprendere e men che meno giustificare le ragioni dell’altro. In un’altra circostanza lo stesso personaggio, che vede ora la moglie precipitare nelle depressione più nera, darà la stura al suo risentimento esplodendo, contro l’autore del furto, in una serie di invettive rabbiose, forcaiole: «Ho voglia di ammazzarlo, quel bastardo!… I tipi come quello li metterei a spalare merda. Altro che tenerli al caldo di una cella a guardare la televisione!». Anche Michel, durante il primo faccia a faccia con il suo aggressore, pronuncerà parole dure, implacabili: «Io non sono come te. Non mi farai diventare come te», prima di rispondere con un manrovescio alle velenose insinuazioni del giovanotto che era giunto ad accusarlo di aver intascato sottobanco la sua bustarella per concludere un accordo capestro con il padronato. «Mi ha trattato con disprezzo», si giustificherà poi Michel con la moglie. «Ha offeso la mia dignità». E tuttavia, a differenza del cognato, Michel e Marie-Claire appaiono assillati sin da subito dal bisogno di capire quello che ai loro occhi appare insopportabile: il tradimento del principio della solidarietà di classe: una verità lacerante che, inducendoli a interrogarsi sul proprio passato, sul senso delle loro vite e delle loro lotte, giungerà a sconvolgere tutto un universo di certezze. Il turbamento nascerà allora dalla constatazione amara dello scacco, dalla scoperta dello scollamento insanabile che si è venuto a creare tra i propri codici di comportamento morale e la rabbia feroce e senza speranza dei nuovi poveri. Tutto ciò non impedirà alla coppia di conservare quel senso della dignità personale e quella fede istintiva nella solidarietà e nella giustizia sociale che hanno guidato da sempre le loro esistenze. Michel e Marie-Claire potranno allora compiere la scelta più coraggiosa e difficile e “scandalosa”: la scelta del perdono, consegnandoci un finale spiazzante e falsamente ingenuo, luminoso e generosamente ottimista. Un epilogo lieto e pur lontano dai rischi del buonismo a buon mercato (1), lontano altresì da ogni enfasi tribunizia e demagogica (2). Un happy end dove pare anzi di respirare qualcosa del lucido e sofferto impegno umanitario dei fratelli Dardenne. Guédiguan recupera appieno qui la scrittura dal respiro largo, vibrante e caloroso delle sue pellicole migliori, una scrittura capace di conferire a personaggi, ambienti, accadimenti un sentimento di forte naturalezza, di autenticità, muovendosi con equilibrio virtuoso tra le differenti coloriture del racconto (il film parte come una commedia lieve e gioiosa à la Pagnol, vira inopinatamente verso le crudezze del noir, per dispiegare infine accenti gravi, di malinconia sottile e crepuscolare). L’intrigo potrà allora concedersi piccole furbizie di sceneggiatura. Soluzioni squisitamente romanzesche saranno esibite con spudorata noncuranza (penso soprattutto alla scena, assai toccante, in cui Michel e Marie-Claire si avvedono di essere pervenuti, ciascuno per proprio conto, alla decisione di adottare i fratellini di Christophe: l’episodio è recuperato pari pari dal testo poetico di Victor Hugo, Les pauvres gens, da cui il film prende l’abbrivio). Purtroppo le sequenze in cui Christophe erudisce i fratelli più piccoli conservano, come si diceva più sopra, un andamento fastidiosamente stucchevole, spalmate come sono con dosi indigeste di melassa. Una clamorosa caduta di tono dettata, verrebbe proprio da dire, dagli intenti dimostrativi e didascalici che qua e là arrivano a prendere la mano al regista, e che non consentono alla pellicola di dare corpo a quei particolari allusivi che, se altrimenti trattati, avrebbero potuto indurci a leggere tra le righe del racconto le ragioni sotterranee, inconfessate e inconfessabili, che sembrano animare le scelte dei protagonisti: l’urgenza di tacitare dubbi ed equivoci sensi di colpa; la necessità di eludere come che sia l’impatto di una rivelazione – il crollo dell’utopia rivoluzionaria – percepita come scandalosa e intollerabile. (1) Ci sarà spazio, nel film, anche per la reazione stizzita dei figli della coppia di fronte alla decisione dei genitori di prendersi carico dei fratellini del giovane ladro. Una scena che, come ha scritto qualcuno, conserva qualcosa di acre, di fassbinderiano, e dove la frattura tra la rettitudine morale dell’eroe proletario e il ripiegamento egoistico sul proprio orticello familiare delle nuove generazioni torna a farsi percepibile. (2) Benché raffigurato, nelle scenette familiari, in forme decisamente imbarazzanti, degne di uno sceneggiato televisivo da quattro soldi, il personaggio di Christophe (un Grégoire Leprince-Ringuet alquanto smarrito) è sottratto a ogni stolta celebrazione populistica.