Il Festival di Cannes 2012? Interessante e deludente (viste le premesse). Un po’ folle e abbastanza conformista. Ostinatamente aggrappato alla formula-fabula del “cinema d’autore” (prima il nome, poi il film), ma non privo di deragliamenti illuminanti. C’è la vetrina per venditori e spettatori critici professionisti, che dipende dalle annate (niente a che vedere con il 2011 di Kaurismäki Malick Moretti Refn Dardenne Von Trier Kawase Ceylan Hazanavicius Van Sant Allen Kim Ki-duk), e c’è il retro-bottega pieno di cose ammucchiate alla rinfusa, che dipende dalla curiosità dello spettatore nomade rabdomante. Il bello dei festival è che un giorno sei in fuga, per terra e per mare, con due dodicenni innamorati, nel magnifico mondo di Wes Anderson (Moonrise Kingdom), tra scout disadattati e geniali e genitori fedifraghi e perplessi, vestitini vintage (anni Sessanta) e inquadrature squadrate (Mr. Fox, ma con sentimento), Honky Tonkin’ di Hank Williams e la musica smontabile di Benjamin Britten, e il giorno dopo ti ritrovi imprigionato tra le mura di una casa borghese con due ottantenni che stanno imparando a morire, nell’universo senza scopo e speranza, umano terribilmente umano, di Michael Haneke (Amour), dove la natura (la malattia) reclama la sua sovranità sulla cultura, e non resta altro che un po’ di tenerezza devota e la libertà di scegliere se vale davvero la pena (sì, comunque valeva la pena), concretizzata in un ultimo atroce gesto d’amore. Ridi, piangi, riempi gli occhi e pensi che il cinema è sempre vivo e lotta (ama, pensa, soffre, gode, muore) insieme a noi. Anche perché capita che un illustre sconosciuto di nome Rachid Djaidani – romanziere, campione di boxe, attore di Peter Brook (Hamlet! Le Costume!), aiuto-regista di Kassovitz per L’odio – dopo nove anni di lavoro senza finanziamenti, realizzi un magnifico film d’esordio come Rengaine, girato per le strade parigine con una camera dv, storia (tra le altre) di un amore tra una ragazza araba e un aspirante attore di colore, ostacolata dalla famiglia di lei, formata da trentanove fratelli, tra cui il capobranco, che flirta con una cantante ebrea ma decide che la tradizione (la purezza della razza culturale) vada difesa a ogni costo, anche se ormai non c’è più nulla da difendere (lo capirà anche lui). Il brutto dei festival è che, numericamente parlando, le occasioni mancate superano di gran lunga i matrimoni riusciti. L’improbabile Kerouac di Walter Salles (On the Road, film pavido che trasforma il mito in aneddoto), l’insopportabile Andrew Dominik (Killing Them Softly, vedi alla voce cinefagia), la confusionaria soap impegnata di Nasrallah (da Baad el Mawkeaa/After the Battle, ci saremmo aspettati di capire-vedere qualcosa in più dell’Egitto post Primavera araba), la simpatica ma insipida commedia di Ken Loach (The Angels’ Share), l’inquietante ma convenzionale film-dossier di Vinterberg (Jagten/The Hunt)… Stiamo parlando di pellicole in concorso, scelte da selezionatori navigati per darci un’idea del cinema che stiamo attraversando, molto spesso prodotto e cofinanziato (ammirevolmente) dai francesi, con tutti gli effetti collaterali del caso (vedere l’incontro paradigmatico tra Hong Sang-soo e Isabelle Huppert nell’esile divertissement Da-Reun Na-Ra-e-Suh/In Another Country). E allora ben venga la Quinzaine des Réalisateurs, che l’anno scorso sembrava entrata in catalessi, e invece stavolta ha saputo variare spunti e proposte, dall’antonioniano Sueño y silencio all’adolescenziale The We and the I di Michel Gondry (deludente), dall’elegante melodramma di Hur Jin-ho, che ha ambientato Le liaisons dangereuses nella Shanghai degli anni Trenta, al cinefilo Room 237 di Rodney Ascher, che viviseziona Shining dando voce a cinque persone ossessionate dal capolavoro di Kubrick, tra osservazioni sorprendenti e interpretazioni bislacche. Menzione d’onore al cartoon realizzato da Stéphane Aubier e Vincent Patar (quelli di Panique au village) insieme a Benjamin Renner, Ernest et Célestine, deliziosa storia scritta da Pennac su una “coppia di fatto” formata da un orso e una topolina, decisi a vivere insieme nonostante i pregiudizi biologici e culturali dei rispettivi compagni di specie. È alla Quinzaine che abbiamo trovato i film più convincenti del Festival: il già citato Rengaine e soprattutto l’ultimo lavoro di Pablo Larraín, No, che completa la trilogia sul Cile di Pinochet. Un film sorprendente sia per la storia, che ricostruisce la campagna referendaria (pro o contro il regime) del 1988, sia per lo stile, completamente diverso da Post Mortem, agile, sporco e diretto, realizzato con una macchina degli anni Ottanta, per garantire la stessa resa dell’immagine tra video d’epoca e ricostruzione cinematografica. Documento, narrazione e riflessione sono sapientemente amalgamati in una pellicola che ricostruisce la battaglia tra il Sì e il No a Pinochet, mentre racconta la sfida personale tra un giovane pubblicitario prestato alla politica (che utilizza il suo talento per vendere il prodotto-democrazia al pubblico degli elettori) e il capo della sua agenzia, schierato con il dittatore in cerca di legittimazione internazionale. Per la prima volta l’opposizione poté contare su quindici minuti al giorno di spazio libero in tv, riempiti con una spiazzante (per il regime) retorica della gioia, jingle orecchiabili, video (più o meno) creativi, interviste raccolte per strada, satira svela-ipocrisie. La vittoria del No è raccontata in modo appassionante, ma in un certo senso finisce anche per inquietare: è davvero solo una questione di comunicazione? La politica è ancora pratica e teoria della cosa pubblica, un esercizio critico di consapevolezza (memoria) e trasformazione, o solo una tecnica da usare a fin di bene o di male, una sfida tra retoriche contrapposte, in cui la “verità” va mediata e ben confezionata perché non spaventi la gente? In confronto al film di Larraín, misteriosamente fuori concorso, tutto il resto appare incompiuto (il che non è sempre un male), anche quando è molto più ambizioso o esteticamente coraggioso. Basta pensare a Paradies: Liebe (Paradise: Love) di Ulrich Seidl, che racconta l’approdo in Kenya di danarose signore in là con gli anni in cerca di piaceri sessuali animali (se poi una vuole anche la tenerezza, la questione si complica): un nuovo rigoroso viaggio nell’osceno, con qualche immagine folgorante (i giovani neri in piedi sulla spiaggia del resort ad attendere di essere scelti), ma un film che finisce per attorcigliarsi su se stesso e sul sadico compiacimento del regista. Un altro film che comincia benissimo e a un certo punto non sa più dove andare è Reality di Matteo Garrone, forse anche per colpa dell’esile storia, in cui lo spassoso tragico protagonista (un pescivendolo napoletano ossessionato dal Grande Fratello televisivo) viene lasciato alla deriva di una follia che non cresce, non “impazzisce” fino in fondo, rimane in superficie, dentro un film abile, anche divertente, ma non così agghiacciante come vorrebbe (dovrebbe) essere. Christian Mungiu, invece, sa fin troppo bene dove vuole arrivare, tanto che il suo interessante Dupa dealuri (Beyond the Hills) finisce per assomigliare a uno di quei film a tesi che non rivelano la realtà, ma ne fanno una parafrasi un po’ macchinosa (per quanto ben girata). E sia chiaro che parliamo di registi di talento. Autori come Jacques Audiard (in De rouille et d’os ci sono sprazzi di grande intensità) o Abbas Kiarostami (che occhio! ma quanto è irritante questo esercizio di cui non si vede il motivo!) o Carlos Reygadas (all’inizio di Post Tenebras Lux ci sono i cinque minuti di cinema più straordinari di tutto il Festival, ma poi, tra la narrazione antinarrativa e le immagini sfocate e sdoppiate sui bordi, un satana-caprone fosforescente e una patetica orgia, abbiamo l’impressione che il regista voglia solo impressionare). Su tutti questi film le opinioni sono molto discordanti (rimandiamo ai voti del prossimo numero). Ci sarà spazio abbondante per discuterne sulle pagine della rivista. Ci sarà modo di raccontare la delusione dopo aver visto Io e te di Bernardo Bertolucci, gli imbarazzi di fronte al Dracula di Dario Argento (lo dicono anche i fan più sfegatati), i pregi e i difetti dei film di Nichols e Resnais, il colpo di genio di Elia Suleiman (Diary of a Beginner) nell’inutile film collettivo 7 días en la Habana, il piacere di scoprire il talento di Ben Zeitlin, trentenne esordiente originario di New York, autore di Beast of the Southern Wild, un film malickiano, rude e visionario, pieno di idee e di energia, fatto di terra e acqua, di ghiacci che si sciolgono e animali preistorici al galoppo, di un mondo pagano che sta scomparendo (sul Delta del Mississippi) e di una coraggiosa bambina di sei anni, Hushpuppy, che vive col padre alcolizzato e un’inaffidabile inaffondabile comunità di strambi selvaggi a cui si finisce per voler bene. In un’annata come questa – col suo consueto apparato fuori concorso di film “altri” che raccontano guerre, periferie, miserie con la formula festivaliera del cinema minimalista, impegnato, anche un po’ punitivo, vagamente ricattatorio – finiscono per emergere anche certi film “normali”, buoni e giusti, come Elefante blanco di Pablo Trapero (due preti ben poco preteschi nella bidonville di Buenos Aires: uno riscopre il sesso, l’altro è destinato al martirio, contro la legge, il sistema, la curia, la polizia) o A perdre la raisons di Joacquim LaFosse (storia ben raccontata e ottimamente interpretata, finale escluso, di una madre-moglie schiacciata dal suo ruolo e dall’egoismo di chi la circonda, dentro una famiglia disfunzionale arabo-francese). Poi c’è Leos Carax e il suo ambizioso, metafisico, metacinematografico film-mondo. Il Festival di Cannes assomiglia un po’ alla limousine piena di cinema che sta al centro di Holy Motors. Maschere, trucchi, storie di ogni genere, emozioni assortite, cose già viste o ancora da vedere. Ma anche una lista di appuntamenti rigorosa, perché lo spettacolo (come la vita) ha le sue regole e la sua ontologia (autore, attori e spettatori sono complici del gioco). Ognuno prende quello che può. E non c’è modo di conciliare chi ritiene che il film di Carax sia un bidone, un esercizio meccanico, una stecca di quelle memorabili, e chi invece pensa sia l’unico autentico capolavoro di quest’anno, il film che sbaraglia codici e attese, il cinema che va al di là del cinema. A proposito di limousine, c’era grande attesa per l’incontro tra David Cronenberg e Don Delillo in Cosmopolis. Capita di salire su un’auto per andare dal barbiere, e magari provare a riconciliarsi con la vita (o meglio, con la morte), e di ritrovarsi protagonisti di un’odissea che assomiglia alla fine del mondo (capitalista, tecno-virtuale, solipsistico). Qui siamo nel cuore della questione che attraversa tante, forse tutte le pellicole del festival, belle o brutte, realiste o fantastiche, con ambizioni liriche o vocazione di genere. A volte è il tema e in altri casi solo il contesto, è il nemico esplicito o il convitato di pietra, la causa che scatena il dramma o il palcoscenico che ne amplifica la portata. È la nostra società fondata sul denaro e l’ossessione del controllo, sull’egolatria, l’atomizzazione sociale, il conformismo culturale, la disuguaglianza, il culto dell’efficienza, la tecnologia dell’informazione fine a se stessa. Non aspettatevi risposte da questo film parolaio, in cui gli stranianti dialoghi del romanzo vengono ulteriormente raffreddati da una messinscena che esalta l’artificio e una claustrofobia luttuosa. Ma qualche buona domanda, forse, c’è.