CINEFORUM / 515

Gli zigoli, ovvero della semplicità ( fantasiosa)

di Pierpaolo Loffreda

Le usanze dei Merja citate nel film sono tutte inventate. Lo confessa lo stesso Osokin in una intervista (3): «Le tradizioni e le abitudini del popolo Merja non sono l’aspetto principale del film. Sono una metafora inventata da me. […] Sì è vero, l’etnografia del film Ovsjanki è inventata […] ma in principio avrebbe potuto anche essere così» (4). D’altra parte, a voler essere attenti, lo stesso Aleksei Fedorchenko si era lasciato andare a una dichiarazione esplicita: «I Merja sono stati assimilati nella cultura russa da molto tempo, tuttavia noi in questo film ipotizziamo che essi continuino a vivere fra noi» (5). Allora perché tutti (almeno in Italia) hanno abboccato all’amo teso dal regista e da Denis Osokin (6)? Qui le risposte possono essere molteplici (a iniziare da una dabbenaggine tutta nostrana: valutare “autentiche” certe dichiarazioni senza controllare prima le fonti). Noi propendiamo per due motivi: da un lato l’adeguamento di ogni spettatore all’attitudine evidenziata da Coleridge nella sua celebre definizione del comportamento del lettore: la «sospensione volontaria dell’incredulità» (cioè della diffidenza dalle balle che gli altri ci raccontano) per assecondare il nostro piacere, e dall’altro il gradevole, confortante stato d’accettazione, sempre da parte di ogni spettatore, di una dimensione altra, nella quale condizioni purtroppo impraticabili per noi possano trovare una loro (fittizia) praticabilità concreta.
L’ammirazione per la semplicità delle persone e delle cose: un uomo del tutto innamorato, dopo molti anni di matrimonio, solo di sua moglie; la morte avvertita come parte imprescindibile dell’esistenza. Questo è, a nostro avviso, il secondo segreto del film: la capacità dell’autore di sondare e rendere esplicite, attraverso immagini allusive, alcune idee che noi uomini abbiamo (probabilmente da sempre: in questo i Merja non c’entrano proprio nulla) della vita, della morte, delle relazioni con i figli, dell’amicizia e della complicità virile, delle donne e del sesso: del rapporto con la nostra percezione del senso dell’esistenza e con l’altro sesso. Ci piace sentirci semplici, così come la voce del narratore afferma essere tuttora i discendenti dei Merja, normali (ma magari promiscui), coi nostri volti e corpi tutt’altro che perfetti, simili agli altri, proprio come gli zigoli, che danno il titolo originale al film e che accompagnano con la loro presenza sonora e visiva tutta la narrazione, dall’incipit al finale risolutivo: uccellini comuni, molto diffusi da quelle parti (ma, in diverse varietà, anche da noi), della grande famiglia dei passeri.
Per quanto riguarda l’assetto formale del film, innanzitutto Fedorchenko ha scelto la struttura del road movie, inusuale ma non del tutto estranea al cinema prima sovietico e quindi delle repubbliche nate dall’implosione dell’urss: un modello fondamentale della narrazione, dotato di fascino (anche di segreti e interdetti, visto che muoversi liberamente per i territori “imperiali” era proibito ai tempi del passato e non rimpianto regime), e capace di esprimere bene una ricerca che non può avere fine (se non quella che in fondo al fiume trovano i due protagonisti: come scriveva Carlo Emilio Gadda, «Tendo al mio fine»). Il viaggio in Silent Souls è circolare, e il tempo è sospeso, ciclico, eterno, e il ritmo ipnotico-sognante: si parte da un luogo e vi si fa ritorno (per sempre); da un fiume, naturalmente, visto il ruolo fondamentale che l’acqua riveste, insieme all’amore, nella cultura immaginaria evocata. Ci viene in mente un altro grande road movie sovietico: Ya tebya pomnyu (Io ti ricordo), dell’uzbeko Ali Khamraev (1985), e naturalmente, a proposito della presenza continua e della forte pregnanza semantica dell’acqua, le opere di Andrei Tarkovskij, in particolare Lo specchio (1974), e la splendida sequenza in cui, come qui, all’acqua è abbinato il fuoco, l’incendio (trasformato nella pira sulla quale viene bruciato il cadavere di Tanja, ai bordi dell’acqua), accompagnato dagli splendidi versi di Arsenij Tarkivskij, padre del regista (8).
Lo stile contemplativo, assorto e onirico di Fedorchenko ci conduce, infine, alla sua rivelazione sostanziale: un affetto dolce e sofferto per la natura umana, per le cose semplici ma essenziali del vivere, che spesso ci sfuggono, fino a doverle cercare in altre, presunte, culture e tradizioni. Un modo di vivere con cui è bello (e utile) riconciliarsi: condurre la propria vita «con allegra tristezza», come si dice nel finale del film.

(2) I più accreditati sono i Mari (Maritzi), della regione di Kostroma, ma a distanza di tanti secoli si tratta solo di ipotesi senza molto fondamento.

(4) Bisogna sottolineare che negli ultimi anni in Russia c’è stata una “rinascenza” meriana, ossia ci sono gruppi di persone (di lingua russa) che asseriscono di essere i discendenti dei meria; hanno le loro pagine web (per esempio, http://merjamaa.zzl.org/), si sono inventati una bandiera e perfino un inno nazionale (scritto però in ersiano, che è una lingua parlata dai mordvini).

(6) E dire che uno dei film precedenti di Fedorchenko, il mockumentary Pervye na Lune (First on the Moon), del 2005, avrebbe dovuto mettere tutti sull’avviso.

(8) Cfr. Tullio Masoni, Paolo Vecchi, Andrei Tarkovskij, Il Castoro, Milano 1997.

(9) Nome fittizio col quale Denis Osokin firma il racconto omonimo.