In questo senso un ruolo insostituibile continua a essere svolto dai festival, se non altro perché rappresentano l’unico luogo fisico dove poter ancora vedere questi film su grande schermo; e per la cinematografia di un Paese che considera il direttore della fotografia autore del film quanto il regista, la qualità della proiezione è qualcosa di imprescindibile per la corretta comprensione delle opere stesse.
Durante l’incontro con la stampa veneziana Kosakovskij ha indicato ¡Vivan las antipodas! come secondo titolo di un’ideale trilogia (il cui titolo provvisorio è “Palindromo”) iniziata col cortometraggio Svyato (2005): protagonista di Svyato era il figlio di due anni del regista posto per la prima volta dinanzi alla propria immagine riflessa in uno specchio, protagoniste di ¡Vivan las antipodas! sono le terre collocate agli antipodi del globo, delle quali Kosakovskij filma la morfologia sorprendentemente speculare.
Aleksandr Rastorguev è il più ostinato nel sostenere il ruolo attivamente politico del cinema ed è infatti autore di due manifesti, il Kinoproby pubblicato nel 2009 su Openspace.ru (un sito dedicato al cinema e all’arte) e soprattutto quello comparso nel 2008 sulle pagine della rivista «Seans» che teorizza le caratteristiche del cinema naturale (natural’noe kino): il linguaggio cinematografico concepito da Rastorguev applica «una “strategia della maleducazione, dell’asocialità, della distruzione, del dolore», per un’arte che diventi «fonte di inquietudine e disagio”» (2).
Se Rastorguev intende perseguire il «raggiungimento di una nuova esperienza morale» come «distruzione dell’orizzonte artistico della cultura» attraverso una combinazione di sperimentazione «estetica pura e antropologia totale» (5), Kosakovskij parallelamente opera ponendo l’accento sull’importanza della percezione e su quanto sia complesso far percepire agli spettatori determinate sensazioni attraverso la combinazione di inquadrature e sonoro (6).
Il lavoro che Kosakovskij opera sulle immagini tende a far percepire i soggetti delle inquadrature, siano essi cose o persone, come forme semplici, svincolate dal significato che comunemente viene loro attribuito: la macchina da presa non riproduce, piuttosto rende visibile (7) ciò che è già presente nella natura ma che gli occhi dello spettatore/osservatore sono spesso incapaci di vedere, impigriti dall’abitudine e imbrigliati dai concetti.
Kosakovskj privilegia le inquadrature fisse e lunghe per cogliere meglio i tracciati dinamici prodotti dalle forme in movimento (siano esse pecore che entrano in fila nel recinto o fiumi di lava irregolari) e le inquadrature frontali che, annullando la profondità di campo, appiattiscono i soggetti permettendo agli spettatori di vedere, ad esempio, i cittadini di Shanghai sotto la pioggia non come esseri umani alle prese con ombrelli e impermeabili ma come pennellate di colore incastrate l’una con l’altra.
La forma pensata e filmata da Kosakovskij è sempre una forma viva, capace di generare continuamente visioni ulteriori. L’unione di due forme dà vita a una forma nuova che esiste nel momento in cui viene guardata: una montagna e il suo riflesso sulla superficie di uno specchio d’acqua rendono visibile una forma che, se accolta dall’occhio senza preconcetti, si libera dai legami coi significati reali (il luogo fisico, la montagna, l’acqua, la luce riflessa) ed esiste solo come immagine, come linea ondulata, come modellazione cromatica (9).
Tale distinzione tra forma viva e forma morta suggerisce l’uso di un termine più pertinente con la visione di Kosakovskij, cioè figura: rispetto alla forma, la figura implica infatti l’atto generativo della plasmazione (10). La forma è statica, la figura è dinamica e perciò cinematografica.
Il rapporto tra la cosa e il suo riflesso appare qui più complesso: la cosa non è un territorio, non è un paesaggio, è un essere umano, un bambino che deve imparare a riconoscere la corrispondenza e la differenza tra se stesso e l’immagine che lo specchio gli rimanda. La risposta speculare e vitale rimandata dalla superficie riflettente è ciò che permette il riconoscimento della forma nuova e, in questo caso, di se stessi.
Il cinema naturale di Aleksandr Rastorguev
Nel manifesto Kinoproby Aleksandr Rastorguev parla di morte dell’autore e della necessità di rendere la macchina da presa parte integrante del personaggio, un terzo occhio che consenta al personaggio stesso di guardarsi, mostrarsi agli altri e quindi raccontarsi da solo. Il risultato sarà, secondo il regista, un anti-cinema lontano dalla finzione e in grado di proiettare la vita stessa direttamente sullo schermo. La vita, e non la realtà.
La distinzione tra realismo e naturalismo è in effetti piuttosto sottile e poggia proprio sull’analisi dei rapporti di causa ed effetto che legano gli eventi e le azioni: il naturalismo letterario della seconda metà dell’Ottocento era, così come lo aveva pensato Émile Zola, nient’altro che la «variante più propriamente scientifica del realismo» (13).
Della corrispondenza tra dolore e verità parla anche Alena Shumakova (14) in riferimento al cinema – lontano sotto molti altri aspetti da quello di Rastorguev – di Aleksandr Sokurov: «La verità dell’esistenza umana nei suoi film sta non nelle parole e nei pensieri ma nel corpo e nelle passioni di esso. La metafisica di un corpo sofferente per le proprie passioni è legata alla problematica del potere che non viene mai identificato con l’ideologia. Sokurov realizza una riduzione fenomenologica del testo, togliendo strato dopo strato a quanto è superficiale e lasciando soltanto la verità nella sua incarnazione materiale-corporea».
La sua idea di “estetica pura” si esprime attraverso una macchina da presa che guarda e restituisce la forma senza domandarsi se essa sia artisticamente bella o se sia giusto e rispettoso inquadrarla e mostrarla al pubblico: la forma è parte della natura, un prodotto dei suoi processi e va guardata così com’è.
«Esistono due tipi di cinema: uno parla di amore, l’altro di odio: Mat’ (The Mother) appartiene alla prima categoria», hanno dichiarato Pavel Kostomarov e Antoine Cattin rispetto al film da loro diretto nel 2007 che narra la storia di una donna, del suo passato di violenze, del suo presente pieno di difficoltà e dei suoi nove figli.
La crudezza cinematografica non si traduce insomma in violenza perpetrata sui soggetti delle storie raccontate nei film, perché la vera violenza sarebbe chiudere gli occhi, il vero odio sarebbe far finta di niente, coprire il dolore del mondo sotto la patina della spettacolarità o di una pretesa artisticità.
Se, alla luce di queste considerazioni, ripensiamo a Svyato di Kosakovskij, si comprende come, per il regista e padre, la crudeltà non consiste nell’usare il bambino come carne per il proprio esperimento cinematografico, mostrandone gli abissi della coscienza e provocandogli sofferenza psichica. Crudele sarebbe tentare di nascondergliela, quella naturale sofferenza. Crudele sarebbe ostinarsi a guardarlo come un dolce bambolotto ignaro di ciò che è e di ciò lo circonda. Sotto l’occhio di Kosakovskij, l’infanzia di Svyato viene spogliata di ogni connotazione idilliaca: i primi anni di vita sono una battaglia, con il mondo e prima di tutto con se stessi.
L’uso libero e consapevole che questi registi fanno dell’estetica cinematografica mette in discussione buona parte del nostro cinema documentaristico più celebrato e tutte le prese di posizione, da parte degli autori e della critica, sul pudore, sulla necessità di mantenere una rispettosa distanza dal soggetto e sul valore dell’osservazione condotta con grazia e discrezione (pensiamo a Essere e avere [Être et avoir, 2002] di Nicholas Philibert o a Il grande silenzio [Die große Stille, 2005] di Philip Gröning).
Autori come Kosakovskij, Rastorguev o, per spostarci dalla Russia, come il francese Sylvain George – premio per il miglior documentario al ventinovesimo Torino Film Festival con Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom), 2011 – mostrano invece che la peculiarità del documentario risiede non nella possibilità di mettere in scena o di fare informazione ma nella capacità di rendere visibile – attraverso gli strumenti propri del cinema – il farsi dinamico, doloroso e infinito della realtà.
(1) Nell’introduzione a Film urss ’70 – La critica sovietica, Marsilio, Venezia 1980. (2) Aleksandr Rastorguev, Cinema naturale, citato in Barbara Wurm, Il cinema documentario russo. Un tour bio-geografico, Cinema russo contemporaneo, Marsilio, Venezia 2010, pag. 172. Il manifesto di Rastorguev è consultabile in russo sul sito della rivista «Seans».
(3) Ibidem. Dove non diversamente indicato, le dichiarazioni di Rastorguev sono state raccolte agli incontri col pubblico fatti dal regista a Pesaro nel 2011.
(4) «I don’t think documentary is about politics, I think documentary is about the meaning of life»: l’ha detto Kosakovskij a Venezia durante la conferenza stampa di ¡Vivan las antipodas!.
(5) Rastorguev, ibidem.
(6) Nel corso di una masterclass tenuta nel 2006 al Festival del Documentario di Amsterdam (idfa) Kosakovskij ha illustrato agli studenti una serie di consigli cinematografici. La “regola” numero 8 parlava della percezione: «Perception is more important than what I’m telling […]. I normally use sound for this, […] I spend months for sound». La masterclass è disponibile su youtube.com/idfa. (7) «L’arte non ripete le cose visibili ma rende visibile», scriveva Paul Klee (Teoria della forma e della figurazione, vol. I, Feltrinelli, Milano 1959, pag. 76, citato in Paolo Cappelletti, L’inafferrabile visione – Pittura e scrittura in Paul Klee, Jaca Book, Milano 2003, pag. 11). «Film only if you want to show something or make people see something» (Filma soltanto se vuoi mostrare qualcosa o far sì che le persone vedano qualcosa), ha detto Kosakovskij durante la masterclass di Amsterdam. (8) Dal momento che il nostro Pianeta è ricoperto per due terzi dall’acqua, trovare punti antipodali terrestri e abitati non è stato semplice. Le coppie geografiche protagoniste del film sono Entre Ríos (Argentina) e Shangai (Cina), Kubu (Botswana) e Big Island (Hawaii, usa), Castle Point (Nuova Zelanda) e Miraflores (Spagna), il lago Baikal (Russia) e la corrispondente zona della Patagonia (Cile). (9) Scriveva Paul Valéry in Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci (Studio Editoriale, Milano 1996, pag. 25): «La maggior parte delle persone vede molto più spesso attraverso l’intelletto che non attraverso gli occhi. Al posto di spazi colorati, costoro individuano dei concetti. Una forma cubica, biancastra, tutta in altezza, forata da riflessi di vetri, è immediatamente, per loro, una casa: la Casa! Idea complessa, accordo di qualità astratte. Se costoro si spostano, il movimento delle file di finestre e la traslazione delle superfici che altera continuamente la visione, non vengono da loro afferrati – poiché il concetto non muta».
(10) “Figura” deriva dal verbo latino “fingo” che significa “plasmare, formare”. Scriveva ancora Paul Klee (op. cit., pag. 17, citato in Paolo Cappelletti, op. cit., pagg. 33-34) a proposito della stasi della forma e della dinamicità della figura: «La teoria della figurazione (Gestaltung) si occupa delle vie che conducono alla figura (alla forma). Essa è la teoria della forma, ma con l’accento sulle vie che a questa conducono […]. Figurazione implica inoltre chiaramente l’idea di una certa mobilità, ed è quindi preferibile. Rispetto a “forma” (Form), “figura” (Gestalt) esprime inoltre qualcosa di più vivo. Figura è più che altro una forma fondata su funzioni vitali: per così dire, una funzione derivante da funzioni. […] La genesi quale movimento formale è, nell’opera, essenziale».
(11) Barbara Wurm, Il cinema documentario russo – Un tour bio-geografico, in Cinema russo contemporaneo, Marsilio, Venezia 2010, pag. 165. (12) “Vertov. Real’noe kino” è il nome dello studio cinematografico di Vitalij Manskij, importante regista, documentarista e produttore tra l’altro di alcuni film di Rastorguev. Manskij nel 2005 ha pubblicato sulla rivista «Iskusstvo Kino» un manifesto chiamato proprio Real’noe kino (consultabile in inglese su manski.ru) nel quale consiglia agli autori di non porsi limiti morali durante le riprese e nega la possibilità che i film abbiano una fine, perché la realtà è eterna: il film si traduce quindi in un lavoro continuo da proporre eventualmente in più versioni. (13) Linda Nochlin, Il realismo nella pittura europea del XIX secolo, Einaudi, Torino 1979, pag. 23. (14) Alena Shumakova, Il cinema d’autore dell’era Putin, in Cinema russo contemporaneo, Marsilio, Venezia 2010, pag. 104.
(15) Ibidem.
(16) Op. cit., pag. 173.
(17) Op. cit., pag. 172.