CINEFORUM / 519

Gruppi di famiglia

di Adriano Piccardi 

Una coppia che cerca di generare un figlio. Un vedovo che di figli ne ha due, entrambi fuori controllo, e viene visitato (quasi) ogni sera dalla moglie defunta (che fuori controllo lo è per definizione). Due anziani coniugi: lei irreversibilmente malata, e lui che devotamente se ne prende cura lungo un cammino senza speranza. Un figlio che vuole fare uccidere la madre per ricavarne i soldi dell’assicurazione sulla vita e che, per ottenere questo, è pronto a “impegnare” la sorella e a estorcere la complicità del padre ebete e della sua nuova compagna decisamente senza scrupoli. Un’altra coppia che, al di là di ogni ragionevole aspettativa, riesce a trovare la strada per affermare il primato del sentimento soltanto dopo aver provato fino a che punto la mera fisicità può unire due esseri “interrotti” molto più di quanto non potessero prevedere. La famiglia, in alcune sue manifestazioni anche non necessariamente ortodosse, è protagonista assoluta di questo numero di «Cineforum». Friedkin non esita in Killer Joe a pescare nella deriva morale e sociale in cui si muovono i suoi personaggi, arrivando così a darci il quadro ipnotico e allarmante di un gorgo verso il quale stiamo forse scivolando tutti. Audiard non ci dice poi cose tanto diverse, anche se in apparenza ci mostra una vicenda “che finisce bene”: quale futuro ci aspetta se l’unica salvezza ce la può garantire l’esercizio della fisicità sempre estrema, la fede cieca nel corpo e nelle sue pavloviane reazioni? Sia Friedkin che Audiard si muovono in un orizzonte non estraneo a quello di un darwinismo sociale, sia pure solo suggerito, che ci affascina esplorare grazie alle capacità narrative dei due cineasti e alla loro messinscena che non si dimentica di chiamare in causa senza riserve le nostre responsabilità di spettatori. Su quale futuro aspettarsi ciascuno di noi, una risposta prova a darla Haneke, mostrandoci un’ipotesi di viale del tramonto di coppia, affidandosi, per quanto ne riguarda la verisimiglianza, all’arte interpretativa di due mostri sacri riconosciuti. Quello di Haneke è un cinema che divide. Lo sappiamo. Succede anche tra i nostri collaboratori. Se la recensione pubblicata su questo numero parla del film con toni di adesione favorevole, è ben vero che vi si possono ritrovare note e sottolineature facilmente ribaltabili da chi ha vissuto il film con sentimenti opposti. Questa volta è la responsabilità dello spettatore/lettore a essere sollecitata… Virzì e Soldini, infine. Di ritorno in Italia, ci troviamo alle prese con una famiglia “che s’ha da fare”, da completare con l’aggiunta del figlio che è simulacro della fiducia nel tempo che verrà; e di una da ricomporre, grazie a un ri-matrimonio con un’altra donna, alla quale – così sembra, quando finalmente il fatto si compie – la moglie defunta non vedeva l’ora di cedere il passo. Tutti i santi giorni e Il comandante e la cicogna sono a tutti gli effetti due film sulla speranza che non vuole morire. Il primo dei due si concentra sulla storia di coppia, affidando il suo messaggio di irriducibile fiducia agli individui nella loro peculiare singolarità, alla loro forza interiore che esclusivamente può impedirne la sconfitta, davanti alla brutalità dei tempi. Il secondo affida le sue considerazioni a una cornice che ci rimanda alla Storia (alle «morte stagioni, e la presente…»), e nella quale magia e ironia si sposano riverberandosi poi sui toni della messinscena. Due film perfettamente calzanti alla nostra realtà nazionale, nella quale vorremmo tutti riuscire a leggere in filigrana quei segni di una gentile resistenza al disastro, che ci permettano di sollevare un po’ lo sguardo dalle macerie in mezzo alle quali camminiamo. Consapevoli che volare è un’altra cosa.