Messa così, è The Master il film perfetto, quello che nonostante le due ore di durata dice “in levare” cos’è il cinema oggi e dove sta la sua impotenza di sguardo. Ma Cloud Atlas e The Master non sono poi così distanti come sembrerebbe: entrambi hanno diviso chi il cinema lo guarda e lo conosce, generando – almeno in chi scrive – riflessioni su cosa guardiamo e come lo facciamo, su cosa siamo disposti ad accettare da un racconto e come ci poniamo nei suoi confronti.
Cloud Atlas è un passo indietro rispetto a The Master, ma ha il coraggio di opporsi all’impotenza dello sguardo cinematografico creando universi comunicanti e pulsanti. A partire dalle catene del destino che già intersecavano la narrazione del romanzo di partenza, L’atlante delle nuvole di David Mitchell, il montaggio alternato non ha il passo monocorde di un Iñárritu che smonta e rimonta mondi preconcetti, ma è una voce unica e insieme molteplice, una voce sinfonica, che si fa trascinare dalla narrazione e girovaga per mondi ed epoche come in una catena narrativa infinita.
Cloud Atlas la narrazione la abbraccia e la raccoglie. Nel continuo intersecarsi delle sue storie, ciascuna con personaggi, interpreti e simboli che ritornano ogni volta mutati di segno, il gioco di travestimenti è così evidente da essere teatrale, quasi farsesco, capace di riunire sotto una sola forma narrativa, che inizia e finisce con la tradizione del racconto orale, l’epica, il mito, l’avventura, la musica sinfonica, la letteratura (Borges, il citato Castaneda), il cinema e i suoi generi, il noir, il giallo, il fantasy, la ricostruzione, il film dal film…
Il presupposto è ovviamente una inevitabile deriva spiritualista, l’esistenza di un’entità oltre le intenzioni umane. Ma quell’entità è la creazione artistica, la bellezza che nasce dalla mente umana. E il film è di per sé un atlante: un atlante delle avventure umane, lungo i solchi del tempo e dello spazio. La materia è viva perché simile ai meccanismi dell’esistente, perché nasce dal rapporto fecondo tra l’uno e il molteplice, tra il singolo e il collettivo, con volti, storie, episodi, gag e svelamenti che a ogni passaggio risaltano familiari eppure estranei, riconoscibili e ribaltati, confermando il legame della parola, del suono e dell’immagine con le radici mitologiche della creazione. E come in un mito, in Cloud Atlas ogni particolare si ripete e si evolve, racchiudendo e svelando nientemeno che il segreto del cinema classico, che raccontava storie sempre uguali e sempre diverse, immagini morte capaci di generare vita.
Ciò che sta dentro Anderson lo sfiora soltanto, perché sa di non poterlo raggiungere, mentre i Wachowski e Tykwer, più ingenui ma ugualmente ambiziosi, provano a raccontarlo partendo dalla fine e ricominciando dall’inizio. La stessa medaglia, per l’appunto.