Licei parigini (di periferia) nel 1971. Aria, abiti, ideali, musiche, parole, immagini, resistenze, desistenze, utopie, fughe, scoperte, rinunce, delusioni, illusioni e, anche, velleità d’altri tempi. Era passato “il Maggio” e gli studenti dei licei facevano proprio il viaggio magnifico che i loro fratelli appena appena più grandi avevano intrapreso tre anni prima, in Francia meglio che in Italia, perché in Francia tutto quello che aveva e ha a che fare con la cultura è sempre stato sognato e vissuto meglio che in Italia, con più passione, più consapevolezza, più follia, più amore (una considerazione fatta qui e ora, alla luce di quarant’anni di storia culturale passata e dell’attuale “stato delle cose culturali” dei due paesi, da una persona, la sottoscritta, che di tutto può essere rimproverata tranne che di essere “francofila”). Quel che è giusto è giusto: i francesi sanno raccontarci anche la nostra storia e la nostra anima, soprattutto quando si tratta di quell’anima collettiva che a un certo punto rivoluzionò, a parte la politica, i costumi, i “mores”, di un paio di generazioni, ribaltando ideali, aspettative, moralità, stili di vita. Solo il cinema americano di quei decenni e il cinema francese hanno saputo mettere in scena il punto di non ritorno della cultura borghese occidentale, con tutte le sue illusioni (la Francia) e delusioni (gli States); anche Bernardo Bertolucci, per raccontare il suo Sessantotto, è dovuto andare a Parigi, a un passo dalla Cinémathèque (snobismo? macché, secondo me idealismo e utopia). E in Après mai (1) c’è una scena ambientata in una piazza toscana che, come linguaggio (inteso alla lettera: i termini e le argomentazioni del dibattito) e come sotterranea autoironia (la scena è girata con stile giustamente classico: ma dopo quarant’anni potremo anche sorridere, no?, dell’utopia della “sintassi rivoluzionaria”), vale da sola decine di metri di pellicola e di videotape militanti e centinaia di ore di discussioni e invettive teoriche sull’appropriazione dei mezzi di produzione culturale e mediatica. E Olivier Assayas non ha certo bisogno di dimostrare a nessuno di essere stato capace di «trovare un linguaggio nuovo per esprimere nuove idee», come chiede il suo giovane protagonista Gilles, che in quel momento pensa di voler fare il pittore e non si è ancora avvicinato al cinema, rimproverando ai membri del collettivo con cui la sua ragazza Christine parte per Reggio Calabria di fare «un cinema noioso e una politica elementare». Assayas ha inventato e reinventato la propria lingua cinematografica, avvolgente, musicale, sinuosa, talvolta ipnotica talvolta limpidissima, per raccontarci l’anima tormentata e i “buchi neri” dell’adolescenza (L’eau froide [id. 1994], progenitore diretto di Après mai, che è quasi un’espansione storicizzata del film del 1994) o la rabbia dolorosa di una madre (Clean [id., 2004]) o il fascino di una star catturata tra passato e presente (Irma Vep [id., 1996]) o l’impareggiabile eleganza di una materia viva come la porcellana (Les destinées sentimentales [2000]), fino a quel trionfale ritratto di un’epoca, dei suoi falsi miti e dei suoi generi cinematografici, che è Carlos (id., 2010), miniserie televisiva ma in realtà uno dei più bei film storici degli ultimi decenni. Questa volta, semplicemente, racconta che cosa è stato crescere in quegli anni, innamorarsi, fare amicizia, appassionarsi, conoscere dei libri, dei film, delle teorie politiche e filosofiche, dei paesi, delle religioni, sbagliare, tornare sui propri passi, perdersi, ritrovarsi, partire, cambiare; lo fa con grinta e con amore, con la lucidità rara di chi né rimpiange né rinnega.
Ai nostri amori
Aperto da una frase di Blaise Pascal sulla giovinezza («Tra noi e l’inferno e tra noi e il cielo c’è solo la vita, che è la cosa più fragile del mondo»), Après mai si snoda con armonia segreta e solo apparentemente “casuale” attraverso i mesi e le stagioni della vita in cui sembra succedere “tutto”, perché tutto quello che succede è vitale, è una scoperta, perché ogni giorno è un evento e la libertà è a portata di mano. Le assemblee, gli scontri con la polizia, gli attacchinaggi notturni, le vere schiocchezze compiute (certe molotov), gli amori lasciati sfuggire tra le dita quasi senza accorgersene (Laure che si allontana nel bosco vestita di bianco, ma anche, più tardi, Christine che corre in bici per guardare ancora una volta di nascosto Gilles che se ne va di notte), l’arte discussa in gruppo e praticata in solitudine, ma anche piegata alle pagine di un giornale ciclostilato o alla proiezione psichedelica durante un concerto, i viaggi fatti per caso (la “fuga” in Italia) o inseguiti con determinazione (il viaggio in Oriente), la scoperta della meditazione trascendentale che si mescola con il didascalismo della politica, i Ching e i primi testi “revisionisti” (Gli abiti nuovi di Mao di Simon Leys), la Storia del cinema mondiale di Georges Sadoul di fianco a Omaggio alla Catalogna di George Orwell, l’instancabile, matematico professionismo di Georges Simenon contro le pagine brucianti di Gregory Corso, la luce e la vita di un quadro di Frans Hals contro un’altra vita, consapevolmente perduta, la trascinante naïveté di un film mediocre ma entusiasta (Joe Hill, la storia del sindacalista e compositore di origine svedese raccontata da Bo Widerberg nel 1971) contro la potenza delle autentiche immagini militanti dei film andini di Jorge Sanjinés.
Un idealismo, una curiosità, una giovinezza che possono trasportare istanteaneamente un’anima inquieta da una barricata in una strada della periferia di Parigi alle bizzarrie di un estemporaneo set di serie B, a Pinewood, nei dintorni di Londra: dove si ritrova Gilles, tra i dinosauri e i nazisti che popolano il set di La terra dimenticata dal tempo (The Land That Time Forgot) di Kevin Connor, stravagante british fantasy prodotto nel 1975 dalla Amicus (“sottomarca” della Hammer), dove il giovane Olivier Assayas si divertiva a bazzicare in quegli anni, mentre lavorava su set più impegnativi (Superman [id., 1978] di Donner). E qui l’ironia e la mancanza di nostalgia diventano davvero sublimi.
<p style="\"text-align:" justify;\"="">(1) Scusate ma, nonostante non si tratti di una delle solite fantasiose interpretazioni della distribuzione italiana ma della traduzione del titolo internazionale (Something in the Air), Qualcosa nell’aria non verrà mai usato nel corso di questo articolo, perché vago e indistinto di fronte ad Après mai, troppo netto, bello, giusto e immediatamente espressivo.