e più che al visibile, all’evidenza oscena,
allora il cielo diventa indifferente alla terra».
Captive di Brillante Mendoza è un film osceno. Osceno secondo l’accezione che Baudrillard dava al termine. Perché vi serpeggia un’esasperazione realistica, un’ossessione maniacale del reale, una volontà di mostrare ciò che abitualmente viene metaforizzato o rappresentato in modo traslato. E l’oscenità comincia proprio quando non c’è più spettacolo, non c’è più scena; quando tutto diventa di una trasparenza e di una visibilità immediata. Questa «brucia e consuma il proprio oggetto» (1), perché lo si vede troppo da vicino, vi scorge quello che non si era mai visto. Tutto è troppo vero, troppo rasente per essere vero. La distanza dello sguardo scompare e la trasparenza abbaglia la vista. Si è di fronte a un diverso regime di visione, non più estetico ma estatico che porta a uno stupore vertiginoso nei confronti di ciò che è più reale del reale; si è messi nella condizione di godere di un piacere iperrealista per il quale l’evento fuori dal comune, nella rappresentazione, viene sentito, interpretato e vissuto con un realismo esasperato, fuori appunto da ogni limite.
Ed è proprio questa la situazione che Mendoza vuole ricreare. Quello di Captive, come sostiene Sara Sagrati, è «un set che potremmo definire esperienziale» (2): il regista fa ripercorrere al proprio cast un itinerario simile a quello percorso da ostaggi e sequestratori, costringendoli all’imprevisto, a una relazione autentica e dinamica con lo spazio; dando loro poche informazioni proprio per sottoporli a uno stato di continua allerta. Davanti alla macchina da presa le persone inquadrate non recitano tanto una parte, ma comunicano la loro verità di essere lì in quel dato luogo in quelle precise precarie condizioni. Certo che solo a queste condizioni di massimo grado di compenetrazione tra individuo e ambiente sia possibile riuscire a manifestare la scoperta della meraviglia nel flusso di un orrore infinito. Immediatezza della storia e conseguente immanenza nella vita quotidiana. Le immagini per Mendoza non devono mai essere assorbite completamente dalla narrazione ma essere in grado di narrare da sé. L’elemento facilmente pietistico della situazione non viene mai elevato a cardine di trattazione, né spettacolarizzato. Nessuna concessione alla facile drammaturgia, quella che spesso si insinua anche nelle più scrupolose ricostruzioni documentaristiche, rigetto assoluto dello psicologismo. Non è dato conoscere le ragioni dei personaggi, si può provare a decifrarle dai loro comportamenti.
Dunque eccoci a fronteggiare l’evidente brutalità di primi piani di bambini nascenti o dettagli ravvicinati di teste mozzate. Riprese che bocceremmo come gratuite ma che vanno invece lette come scelte compiute da una macchina da presa automaticamente e autonomamente desiderante. Quindi vanno interpretate in quest’ottica anche tutte le false soggettive ma soprattutto lo splendido e vertiginoso dolly, possibile solo forzando ai limiti estremi le possibilità dell’occhio cinematografico, che relativizza la drammaticità dell’evento collocandolo in un contesto più vasto che è quello della giungla, realtà immensamente più grande, di una alterità primitiva, di una potenza infinita. La foresta rimane estranea, inaccessibile, impenetrabile, ma soprattutto indifferente alle contingenze umane; un universo autosufficiente, composto da microcosmi altrettanto autosufficienti. Una natura herzoghiana, estrema, che costringe chi l’attraversa a condizioni di strenua resistenza. La tragicità della giungla è ancora più terrorizzante proprio perché scrutata dalla mdp, che si fa «essenzialmente il tramite rivelatore di tutta una vita occulta con la quale ci mette direttamente in relazione» (3): dettagli che l’occhio umano non riuscirebbe a isolare, grazie alla potenza del primissimo piano, diventano, sullo schermo cinematografico, un misterioso paesaggio in cui si annidano sorde minacce, anticamera del cupo in agguato costante. «Tutto sembra colto in un ultimo momento irripetibile, come un’ultima visione d’un paesaggio selvatico… Le cose meno appariscenti si rivelano solo a uno sguardo un po’ fisso ed eidetico» (4).
Come direbbe Baudrillard, la scena è stata sostituita dall’osceno, il posto dell’illusione è stato preso da qualcosa che pretende di fornire un effetto realistico maggiore dell’esperienza della realtà (ed è perciò iperreale). Perciò avvento di un’iperrealtà o di una neorealtà in cui tutto viene tradotto in immagine: è l’insediarsi di una dimensione di oscenità in cui si perde completamente il ruolo delimitante delle cornici, una situazione in cui tutto il visibile viene indefinitamente inquadrato, ingrandito; lo schermo non ammette distanze e non prevede al di là (è qui attorno, come diceva Ejzenstejn del cinema, ci avvolge, proprio come la realtà).
(1) Jean Baudrillard , Della seduzione, se, Milano 2010, pag. 37.
(3) Antonin Artaud, Stregoneria e cinema, in Goffredo Fofi (a cura di), Antonin Artaud. Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, Minimum Fax, Roma 2001, pag. 63.
<p style="\"text-align:" justify;\"="">(4) Gianni Celati, Documentari imprevedibili come i sogni. Conversazione con Gianni Celati, a cura di Sarah Hill, in «Zibaldoni e altre meraviglie – trimestrale on-line di racconti, studi, pensieri, stupori letterari».