Già dal titolo, Spring Breakers, si insinua il concetto di frattura, di interruzione, di momento “altro”. Di una situazione rescissa rispetto alla normalità. La normalità che vivono quattro ragazze californiane, nella frequentazione quotidiana della scuola, dei party sulle spiagge accecanti della West Coast. Nella tradizione statunitense lo spring break è il momento dell’evasione, della trasgressione, quasi una “liberazione”. Per Faith, Candy, Brit e Cotty è qualcosa di più, però. È un viaggio di speranza, di nuovi orizzonti, di nuove prospettive. Harmony Korine ha unito, nel suo quarto film da regista, la tradizione del road movie americano, il senso dello spostamento, della wilderness, della ricerca dello spazio che diventa anche ricerca al proprio interno, con il classico racconto di formazione; la parabola adolescenziale, tipica per chi fa del centro della propria narrazione le vicende di un gruppo di adolescenti.
Korine, in questo senso, è il meno “politico” dei registi indie americani. Allo stesso modo, la sua riflessione non sarà mai quella di un Van Sant. In Spring Breakers si evoca spesso la morte, la si vede, ma la dimensione metafisica che attraversava la trilogia, da Gerry a Last Days, passando per Elephant, e senza dimenticare Restless, non appartiene a questo film come non apparterà mai alla poetica di Korine. Sin dalla scene inziali, Spring Breakers è un lungo trip nella mente di quattro adolescenti annoiate che, partecipando a un rito obbligato, vedono cambiare ineluttabilmente le parabole delle proprie esistenze. Nella premessa californiana Korine affastella immagini da videoclip, una dietro l’altra, senza alcuna connessione, già lisergiche, attraversate da cromatismi pop, kitsch, solo in funzione della presentazione delle quattro ragazze.
L’arrivo in Florida porta all’ennesima potenza il côté kitcch dell’operazione di Korine: party selvaggi notturni, corpi che si sovrappongono, si toccano, si strusciano, senza però mai toccarsi o penetrarsi fino in fondo. Non credo che Korine lo abbia fatto per una questione di censura. I suoi adolescenti, in particolare qui, sono diversi da quelli di Larry Clark, che nel finale di Ken Park si leccano, si penetrano. Korine insiste su una sorta di simulazione accentuata, pruriginosa, mai estrema a livello sessuale. Anche nel consumare le droghe il suo sguardo si concentra più sulla fruizione che non sulla preparazione o sugli effetti devastanti.
La violenza a cui le ragazze si associano è la naturale prosecuzione della noia e del vuoto che vivevano quando si trovavano in California. Richiamata dalla sua educazione cattolica, Faith torna indietro, e anche Candy inizia a pensare alla sua vita dopo il break. La violenza che anima Brit e Cotty è senza un motivo apparente. Le due non sono interessate agli affari loschi di Alien, ai suoi giochi di potere, nemmeno al controllo del territorio. Certo, sono affascinate da questo gangster rasta bianco, giocano a un sesso più che mai simulato con lui. A tratti il break si fa ancora più eccitante. Ma è la noia, o forse qualcosa di oscuro a spingerle alla violenza.
Come detto in precedenza Korine non è così raffinato, la metafisica, la riflessione sulla morte non lo tocca, così come quella sul Tempo e sulla relatività del Vero e del Reale. Però è importante che costruisca il ritratto di una generazione (femminile in questo caso) che non riesce a trovare risposte e sbocchi alla voglia di crescere e di ribellarsi e quindi, in qualche modo, anche di adattarsi alla realtà, senza moralismi, né compiaciuti vouyerismi. Solo mostrando. Così come accadeva in Elephant. E, in modo dissacrante e beffardo, utilizzando come protagoniste due delle icone positive e solari di questa generazione di adolescenti, Selena Gomez e Vanessa Hudgens.