Nel film di Truffaut La sirène du Mississippi (1969), Louis/Belmondo si rivolge a un certo punto a Julie/Deneuve dicendole: «Sei adorabile. Sai cosa vuol dire “adorabile”? Vuol dire “degna di adorazione”». In quel momento Catherine Deneuve vince sul proprio personaggio e Belmondo diventa per un attimo “uno di noi”: e la battuta si trasforma, travalica la funzione diegetica per imporsi come un omaggio irrefrenabile a quella che forse è l’ultima delle “divine” generate dalla magia del cinema.
Mostri, quindi. Ma la mostruosità non è forse un attributo tradizionale del sacro? Qualcosa da temere e da venerare, da fuggire e da contemplare, senza soluzione di continuità. Poco importa che fosse il risultato di una costruzione pianificata dall’apparato industriale cinematografico sotto l’occhio vigile e vivisezionatore dei tycoon, finalizzato a trasformare il sentimento adorante in denaro sonante. L’illusione di riscatto dal quotidiano che generava valeva bene il prezzo del biglietto (o di tutto ciò che fosse necessario acquistare per aderire al culto). La società dello spettacolo viveva il tempo di un’infanzia che più si allontana più sfuma nel mitologico: condizione privilegiata che trascolora oggi in forme di ripresa sentimentale di comportamenti e dichiarazioni appassionate, più che altro funzionali a riecheggiare un’autenticità ormai perduta – così come le “celebrità” dell’oggi consapevolmente si limitano soltanto a interpretare il ruolo da “divi e divine” loro assegnato, ben sapendo che il tutto si risolve in un laicamente dichiarato raddoppiamento delle apparenze. C’è qualche traccia di questo nel recente Facciamola finita di Seth Rogen e Evan Goldberg.
Quei sogni, non ci resta ormai che evocarli nei convegni.