C’è da rimanere esterrefatti di fronte a certe cose lette sui giornali durante la Mostra di Venezia, rea di aver attentato al buonumore dello spettatore e al suo diritto a un cinema potabile possibilmente ottimista. Era tutto un fiorire di “troppismi” (o di tropismi, in senso biologico, reazioni di pelle, di gusto): «Troppo cupo», «Troppo violento», «Troppo difficile», «Troppo noioso». Quasi nessun tentativo di chiedersi qual è il ruolo di un festival come questo (ancora? sì, ancora) in tempi come i nostri, in cui il cinema si è “disincarnato” (liberandosi dal corpo-sala e dalla pellicola-carne) esplodendo in tante direzioni e possibilità (compreso il feticismo della sala, perché no?); in cui il “sentimento dell’epoca” parla di brutalità, solitudine, bisogno di redenzione-palingenesi (di credere ancora che ce ne siano); in cui anche il cinema mainstream cerca confusamente strade alternative (produzioni spurie, semi-indipendenti) per non affogare nelle sabbie mobili del film clone, di un gigantismo sempre più rischioso, ma anche del cinema confezionato per target.
Ma prima di entrare nei dettagli, parliamo di numeri. Il nostro gioco dei voti (giocato da 18 critici cinematografici) parla chiaro: in Concorso ci sono punte clamorose come il 4,5 a Stray Dogs di Tsai Ming Liang (ricordiamo che il massimo è 5 e 3 la sufficienza) o il 3,9 al film di Philip Gröning, ma anche il 3,8 a Frears, il 3,6 a Dolan e Garrel, il 3,5 a Morris. Se aggiungiamo altri 9 film intorno alla soglia del 3, abbiamo la fotografia di un’annata notevole, soprattutto dopo un’edizione di Cannes che sembrava aver fatto piazza pulita di tutto ciò che di appetibile c’era in circolazione. Altri voti eccellenti li troviamo nel Fuori Concorso, vedi il 4,6 a Edgar Reitz e il 4,3 a Wiseman e Miguel Gomes, il 4 a Wang Bing e il 3,7 a Steven Knight, fino al 3,5 di Gravity. Non sorprende, invece, che ci sia poco da segnalare sul fronte Orizzonti: l’anno scorso qui c’era il meglio del Festival, gli azzardi, le scoperte, i documentari, che invece stavolta hanno conquistato il posto d’onore in competizione. Si sono fatti notare quasi solo Uberto Pasolini (4) e Shahram Mokri (4). Quanto alle rassegne parallele, meglio la Settimana della Critica rispetto alle Giornate degli Autori.
Certo, per riuscire a vedere davvero e godere un film come Tom à la ferme, non ci si può accontentare di farne lo spelling tecnico (fotografia ok, trama così così, montaggio disordinato), te lo devi sentire addosso, ne devi apprezzare i guizzi irrazionali e l’umorismo nero, e chi se ne frega se non sai bene dove sta andando e perché, ci sono immagini, idee, volti che sono cinema al quadrato.
Per capire il reale valore del Sacro Gra (se uno proprio non vuole accontentarsi di goderselo, di lasciarsi iniziare al mistero buffo del Grande Raccordo Anulare), bisogna liberarsi dalle paturnie su come dovrebbe essere la realtà perché sia davvero reale. Perché qui la realtà è pro-vocata e messa in scena, è abitata e poi ricostruita, e noi possiamo vedere cose, luoghi, personaggi reali e insieme l’atto di guardarli, in un “documentario” (ahah) che è quasi una commedia all’italiana, ne ha l’amarezza, l’arguzia e anche la tenerezza (lirica).
Poi, certo, possiamo anche notare che Parkland era deludente e anche Under the Skin, che da Kelly Reichardt ci saremmo aspettati di più, che Amelio ha sbagliato tutto, che Piccola Patria (su cui si scommetteva molto) si è rivelato un film troppo manicheo e programmatico. Ma questo fa parte del “gioco” del festival e delle diverse sensibilità critiche. Ne fanno parte anche l’ottima scelta del film d’apertura (che bella sorpresa Gravity!), l’interessantissimo Locke, quel gioiello che è Redemption di Gomes o il solenne film fiume di Reitz.
Se la Mostra di Venezia avrà il coraggio di proseguire in questa direzione – al di là del fattore casualità, perché ci sono sempre annate buone e annate cattive – noi saremo qui e online a sostenerla.