La vita di Adele è un racconto fluviale che sarebbe potuto iniziare prima temporalmente e finire molto dopo, da un punto di vista cronologico; magari con qualche ardita ellisse che ci avrebbe portato molto avanti negli anni, o semplicemente, seguendo una delle tante piste narrative di cui è disseminato il film. A dispetto dell’idea del film “a due”, con due protagoniste assolute, il film di Kechiche ha moltissimi personaggi, certo minori, che però, sviluppati (e che sono stati sviluppati nelle settecentocinquanta ore di girato) potevano far prendere al film altre direzioni, altre suggestioni. Ma a Kechiche, appunto, ciò che interessa maggiormente, a dispetto, appunto dell’incipit, è di aprire interrogativi e dubbi, domande, punti sospesi.
Adèle vive nella periferia di Lille, deve correre tutti i giorni dal piccolo cancello di casa per prendere l’autobus che la porta a scuola. Ha fame di vita, di nuove esperienze. È nuova a tutto. È curiosa, con quella bocca sempre aperta, («Ho sempre fame», dice al fidanzatino Thomas) del mondo, di quello che le ruota attorno. (Qui occorre dedicare qualche doverosa riga ad Adèle Exarchopoulos. Sarà perché da quando l’ho vista a Cannes ne sono ossessionato, ma ritengo davvero miracolosa la sua interpretazione, tanto quella della Seydoux, perfettamente complementari; e ancora una volta complimenti a Kechiche nello scoprire e valorizzare attrici praticamente sconosciute, da Sara Forestier in La schivata a Hafsia Herzi in Cous Cous [La graine et le moulet, 2007]). Ma è anche molto confusa, come gran parte degli adolescenti che si affacciano alle prime esperienze. Confessa candidamente alle amiche che la incalzano quotidianamente, e a Valentin, di non riuscire a capire perché non goda appieno delle attenzioni che le riserva Thomas. Altrettanto goffa è la prima esperienza lesbica, con il bacio convinto e sorpreso all’amica all’ingresso della scuola, seguito, poi, dalla delusione nel vedere che l’amica ha voluto giocare con lei e i suoi sentimenti.
Emma, al contrario, ama il bello, l’effimero, tutto ciò che le può procurare un intenso piacere. E Adele è bella, attraente. Emma non riesce a fare a meno del suo corpo, del torrido piacere dell’orgasmo (lo sottolinea anche nell’incontro al bar dove le due si ritrovano dopo molto tempo). Si innamora, certo, si diverte con questa ragazzina un po’ svampita, naïve, che le permette di assumere una posizione dominante sin dall’inizio, di controllo e anche di manipolazione, ma, fondamentalmente ha bisogno di sentire il suo odore, di toccarle il seno, di toccarle e farsi toccare le parti intime. Impazzisce proprio al pensiero non che qualcun altro gliela possa portare via, anche perché le sembra impossibile, nella sua superiorità intellettuale, ma che qualcun altro possa godere di quel corpo al suo pari.
Che poi Kechiche abbia realizzato anche un film politico non c’è dubbio. Lo ha sempre fatto, da La schivata a Venere nera (Vénus noire, 2010) e che in questo caso lo abbia fatto senza la retorica didascalica di tanti altri cineasti va a suo merito. Ma non si tratta del cuore del film, tanto che, probabilmente, la scena meno riuscita del film intero è la parata gay a cui partecipano anche Adèle ed Emma.
E soprattutto, per un film realista, forse il momento più intenso di tutto il film. L’incontro con Emma in un piccolo bar, momento a metà tra il sogno e il reale, con Adèle che tenta di riavvicinarsi a Emma in uno straziante e psicologicamente violento andirivieni tra ricordi del passato e speranze per un presente. Fino alla scena finale, magnifica. Questa volta è Adele che sceglie il colore caldo, il blu, per partecipare all’inaugurazione di una mostra di Emma. La vede con la nuova compagna, si vede ritratta in alcuni quadri esposti. Soffre ancora, in modo più razionale, ma capisce per sempre che Emma sarà stata solo una delle esperienze più importanti della sua vita. Non l’unica, non la sola, non la relazione rassicurante che cercava e che ancora cerca.