CINEFORUM / 533

Il sudore e il sangue

IL SUDORE E IL SANGUE

di Tina Porcelli

 

 

<p style="\&quot;text-align:" left;\"="">Per Steve McQueen i film non si guardano a rassicurante distanza di sicurezza. Non bisogna iniettare dosi distillate di sentimentalismo fino a condurre gli spettatori all’apice della commozione. Nei film, bisogna entrarci dentro. Subito. Ecco perché 12 anni schiavo non inizia dal principio della storia di Solomon Northup, ma quando lui è già in schiavitù. Il supervisore di una piantagione spiega ai nuovi arrivati come tagliare le altissime canne e poi li controlla dalla comoda postazione di una carrozza, seduto accanto al proprietario che si fa aria con il ventaglio. Solo in seguito, attraverso intermittenti flashback, ci rendiamo progressivamente conto di come la vita normale di un libero cittadino americano sia potuta diventare un incubo. Perché è proprio in un incubo che piomba Solomon quando, dai fasti notturni del ristorante di Washington, si risveglia incatenato mani e piedi in una cella buia e spoglia. Pensa a un errore ma purtroppo scoprirà presto, e a caro prezzo, di essere la vittima di un complotto ordito da mercanti di schiavi. La sua vita serena non esiste più e lui è trasportato clandestinamente in una piantagione della Louisiana, un mondo sommerso di ferocia e sopraffazione, dove l’essere umano è solo bestiame di valore e merce di scambio, carne da sfruttare fino a diventare carcassa inutile. Negli anni in cui il film si svolge, tutto ciò poteva accadere a qualunque cittadino di colore. Per il regista non si tratta quindi di raccontare la storia di un singolo uomo, ma il dramma di un intero popolo, pari a quello dell’Olocausto per la storia europea. Con queste premesse, guai a citare Django Unchained al regista di colore Steve McQueen, perché per lui è impossibile guardare con il registro distaccato dell’ironia una delle pagine più buie della storia americana che lo tocca così da vicino (gli antenati di sua madre erano schiavi provenienti dal Ghana). D’altronde, il protagonista di 12 anni schiavo non ha niente a che vedere con l’animale da combattimento del film di Tarantino. Lo schiavo Platt è un uomo sensibile che sa leggere e scrivere, incanta per la sua bravura nel suonare il violino, e tenta in tutti i modi di fare avere sue notizie ai familiari, in un’epoca in cui il semplice gesto di redigere una lettera poteva costare la vita. Tratto dall’omonima biografia di Solomon Northop, pubblicata nel 1853 e suggerita a McQueen dalla moglie, la storica Bianca Stigter, 12 anni schiavo è un film di afflato epico molto diverso dalle precedenti opere del regista, eppure contiene riconoscibili elementi di continuità visiva, come per esempio l’utilizzo di sonorità intense e vibranti accostate a dettagli macro, oppure la presenza di piccole azioni apparentemente trascurabili sullo sfondo dell’inquadratura che invece rafforzano, per contrasto, l’immagine del primo piano. Non si dimentichi che McQueen ha intrapreso la sua carriera nel mondo dell’arte contemporanea prima di approdare al cinema, e forse per questo il suo scopo è trasmettere una sensazione di avviluppamento fisico allo spettatore, più che raccontare una trama. Inoltre, è quasi una sorta di archeologo del medium, nella misura in cui continua a utilizzare ostinatamente la pellicola, anche ora che il video digitale è ormai il supporto abituale delle riprese. In 12 anni schiavo salta subito agli occhi la qualità pittorica della fotografia che fa emergere, in opposizione alla brutalità degli avvenimenti narrati, la magnificenza dell’ambiente naturale, un apparente angolo incantato di paradiso che in realtà è una prigione di omertà dove regna l’immoralità e che cela i peggiori crimini. Eppure, contrariamente agli standard estetici che ci si aspetterebbe per un film di questo respiro, 12 anni schiavo è girato con un’unica macchina da presa che si sposta di frequente, portata a spalla dal direttore della fotografia Sean Bobbit, proveniente dal mondo del documentario e folgorato dai balzi impulsivi della camera proposti da Dogma 95. Come già nei precedenti Hunger e Shame, anche le prime inquadrature di 12 anni schiavo contengono tutti gli elementi che premono a McQueen per scaraventare di getto lo spettatore nel film: l’obbligata e dignitosa sottomissione di Solomon, il rigoglio inebriante della natura del Sud degli Stati Uniti, il caldo soffocante della piantagione. Un’afa che si appiccica alla pelle, nelle piantagioni e dentro le casette di legno dove gli schiavi dormono ammassati gli uni agli altri, sulle loro schiene martoriate dalla frusta e marchiate da vistose cicatrici che le trasformano in mappe geografiche del dolore. Scorrono sudore e sangue in questo film e, alle condizioni disumane in cui versano gli schiavi, si aggiunge il radicato sentimento della minaccia perpetua, vivere nel terrore di una punizione, dettata anche solo dal diletto di esercitare il diritto di proprietà. Per trasportarci fisicamente dentro la narrazione, a volte McQueen ci priva di una visione d’insieme, riempiendo lo schermo di dettagli, di frequente ripresi con l’obiettivo macro. Mutilati nella vista, allertiamo gli altri sensi, in particolare l’udito, a cui i rumori, anche i più banali, giungono amplificati e potenti. Si pensi per esempio alle canne che si aprono al passaggio della macchina da presa mentre il secco fruscio delle verdi fronde si mescola alle cantilene degli schiavi al lavoro, oppure alle dita di Solomon che accordano il violino, le vibrazioni delle corde che diventano allegre note musicali per una festa, o ancora il frastuono sciabordante dell’acqua spinta attraverso le pale delle ruote del battello che trasporta il protagonista in Louisiana, fino a che la stretta inquadratura si solleva a mostrare lo squarcio incredibilmente azzurro delle onde increspate. Alla fine della sua autobiografia Northup scrive: «Questa non è finzione, non c’è nessuna esagerazione. Se ho scioccato qualcuno, è stato per fare al lettore un resoconto troppo approfondito di alcuni aspetti della questione». Egli racconta dettagliatamente le violenze subite in schiavitù e le caratteristiche dei diversi proprietari che l’hanno acquistato. Ma McQueen non si limita a trasporre il libro, compie anche scelte molto significative, sia narrative che estetiche, come quella di ridimensionare la parte del carpentiere canadese e bianco Samuel Bass (interpretato dal coproduttore Brad Pitt), che nel testo ha uno spazio molto più ampio per le sue dichiarazioni antischiaviste e la generosità con cui si prodiga affinché il protagonista riconquisti la libertà. Non riesce difficile immaginare il motivo della decisione del regista che, agendo diversamente, avrebbe finito per offuscare con l’astrattismo dell’ideologia di Bass il personaggio di Northup, testimone diretto dell’infamante esperienza della schiavitù. Infatti, più che alle parole o ai dialoghi, è agli occhi del protagonista che McQueen delega l’intensità del rapporto con lo spettatore e, nella preparazione del film, fa visionare all’attore i grandi interpreti della storia del cinema muto, Buster Keaton e Rodolfo Valentino. Ma bisogna riconoscere al regista un talentuoso e potente senso dell’immagine, soprattutto nello scandire in modo indelebile alcuni momenti chiave della narrazione. Primo su tutti quando, per aver incautamente reagito ai soprusi di Tibeats, Solomon viene appeso a un grande albero in attesa che il proprietario della piantagione, che ha un’ipoteca sulla sua vita, torni per decidere della sua sorte. E mentre, sullo sfondo, la vita degli altri procede secondo la routine quotidiana, Solomon viene lasciato l’intera giornata appeso a un ramo con un cappio al collo, legato mani e piedi, a testa scoperta, con una temperatura abbondantemente sopra i quaranta gradi e le funi che torturano le membra intorpidite e sempre più gonfie. È solo una delle tappe della sua personale via crucis che raggiungerà l’apice quando sarà venduto a Edwin Epps, magnificamente interpretato da Michael Fassbender, che riesce a infondere nel personaggio – nel libro soltanto rozzo e bifolco – una delirante follia e un groviglio interiore tra razionalità e delirio passionale. Come quando, schiumando d’ira, insegue Solomon a piedi nudi, scivolando nel letame del recinto dei maiali, o ancora meglio nel magistrale piano sequenza finale della brutale punizione alla schiava Patsey, colpevole di provocargli turbamenti a tal punto da perderne il controllo. Per non subire lo stesso trattamento o peggio, Solomon è costretto a frustarla per primo, a trasformarsi in un carnefice che esegue ordini crudeli, andando contro la propria legge morale. Dieci minuti di una macchina a spalla che va a frugare la rappresentazione della violenza, spostandosi per farci guardare bene la scena affinché non si possa più fingere di non sapere, di ignorare la feroce sopraffazione dell’uomo sull’uomo: dalla veemente collera di Epps e dalle maligne istigazioni di sua moglie, all’esitazione di Solomon, al volto sofferente di Patsey, fino alla sua schiena scuoiata, piaghe aperte nella carne lacerata. E non è forse ancora abbastanza per come il libro di Northup descrive la frusta grondante del sangue che scorre, impregnando le zolle di terra. Per tutto il film, Solomon è obbligato a nascondere la sua natura, a fingersi meno di quello che è, a compiere atti terribili e persino a spergiurare il falso, in un’altra memorabile scena notturna tra lui ed Epps, alla luce della lanterna che li trasforma in una sorta di quadro vivente. Un faccia a faccia da cui dipende la sua stessa vita, la salvezza è attaccata al filo della credibilità della sua menzogna. Se il Bobby Sands di Hunger si spezzava, prosciugato dallo sciopero della fame spinto fino all’estremo per non abdicare dalle proprie convinzioni, al contrario il Solomon di 12 anni schiavo si piega come una canna ma non si spezza, riesce a passare attraverso l’inferno e a tornare vivo dalla propria famiglia. Così, questo film di forte denuncia, in fondo ci racconta anche una storia molto quotidiana e contemporanea di tante persone che devono accettare di snaturare un po’ se stesse per sopravvivere, in un mondo lavorativo fatto troppo spesso di soprusi e sempre meno di diritti.