IL RIMPIANTO E LA DERIVA di Giampiero Frasca Di cosa parliamo quando parliamo del cinema di Wes Anderson? Di cosa discutere, per questo ottavo capitolo, che non sia stato già detto in precedenza? Quasi impossibile scrivere qualcosa di nuovo, che sia rimasto sottotraccia o trascurato. Ci si potrebbe soffermare sulla storia narrata, ovviamente, sennonché l’intreccio, per Anderson, è soltanto una variante su un tema fondato sui suoi fantasmi inconsci, sulla sua sensibilità d’autore, anche quando realizza pupazzi animati a passo uno (Fantastic Mr. Fox [id., 2009]). In Grand Budapest Hotel c’è tutto il noto corredo dell’Anderson Style, tutto ciò che in una sola inquadratura permette di estrarne l’immaginario da un nugolo indistinto e di connotarlo inequivocabilmente come suo. A iniziare dal criterio base del piano. Inquadratura sempre centrata, con il personaggio nel mezzo, equidistante dai bordi del quadro, spesso rivolto alla macchina da presa, impegnato in un gioco la cui posta è un dialogo a distanza con il pubblico condotto attraverso sguardi smarriti, dubbiosi, mai ammalianti, incapaci di attrarre, ma perennemente bisognosi di colmare una mancanza, un’insoddisfazione intima. Piano che diventa il tassello per un’inflessibile composizione cartesiana dello spazio, che fa sì che l’ambiente narrativo sia proposto attraverso una serie infinita di proiezioni ortogonali in continuità, in cui predominano il parallelismo e la perpendicolarità. Uno spazio perfettamente centrato (in rete è comparso un divertente collage antologico dal titolo Wes Anderson – Centered realizzato da un filmmaker coreano chiamato Kogonada, collaboratore di «Sight & Sound») da cui spesso è totalmente espulsa la profondità, coerentemente con la natura fotografica animata o fumettistica del suo cinema. Se Moonrise Kingdom (id., 2012), con la creazione di una linearità d’azione mostrata in piani ampi, indifferente all’eventuale pathos della sequenza ma attentissima al suo sviluppo dinamico da cartoon, aveva rappresentato l’apice compositivo di questa concezione eccentrica, Grand Budapest Hotel conferma tali caratteristiche (ad esempio nella scena della fuga di Zero dal tetto della stanza di Agatha al sopraggiungere del pasticcere Mendl, realizzata con grafica bidimensionale da videogioco arcade stile Donkey Kong), ma offre opportunità maggiori a una profondità di campo spesso esclusa nel passato e che adesso compare per agevolare le possibilità grafiche dell’azione (si pensi, per citarne una, alla corsa del concierge Gustave all’interno della hall dell’hotel per sfuggire all’arresto). Un equilibrio della composizione fornito come requisito preliminare, la cui rottura è sempre indice di uno snodo narrativo, di una decisione improvvisa che pare cambiare le sorti dei personaggi, di un mutamento di stato, seppur minimo, all’interno del racconto. Altra costante, i colori. Pastosi, caramellati, intensi, metaforici. In grado di determinare immediatamente un carattere o di definire con un colpo d’occhio una situazione del racconto. Allo stesso modo dei costumi accuratamente studiati per ogni personaggio, oppure degli oggetti con cui essi si accompagnano, quelli che il critico Matt Zoller Seitz, autore del coloratissimo (anch’esso) volume The Wes Anderson Collection, chiama «material synecdoche» (anche se, volendo spaccare il capello in quattro e seguendo la scia di Genette in Figure III, sarebbe più opportuno parlare di metonimia, poiché la relazione tra abito – e soprattutto oggetto – e personaggio che lo indossa è elemento indubbiamente congiunto e caratterizzante, ma pur sempre legato sul piano della contiguità, non dell’inclusione). I cromatismi tendenti al rosso degli interni confortevoli dell’hotel accostati ai grigi spenti della prigione o ai colori bruni e minacciosi della lussuosa residenza della defunta Madame D. in attesa che i discendenti diretti calino come avvoltoi sui suoi lasciti, forniscono indubbiamente un segno tempestivo ed elementare attraverso cui leggere le differenti situazioni, legate insieme dall’inconfondibile divisa grigio-viola di Gustave, pronta a impazzare da un luogo all’altro. I colori e gli ambienti cromaticamente caratterizzati forniscono un fondamento che travalica l’importanza stessa degli sviluppi del racconto, anticipandone gli esiti o ribadendone la rilevanza in riflessioni che assumono valenza metanarrativa, come nell’occasione in cui Gustave, davanti alla salma di Madame D. esposta nella bara, abbandona di colpo l’addolorato contegno per notare con intima soddisfazione il colore dello smalto cambiato su suo consiglio, oppure quando lo stesso Gustave, esteta del cromatismo, nota dal finestrino del treno come il nero della divisa dei miliziani simili alle ss sia di tonalità troppo cupe per i suoi gusti. Ciò che invece compare con insistenza maggiore in Gran Budapest Hotel rispetto ai film precedenti è l’acuta dimensione del rimpianto del tempo perduto. Le atmosfere ricreate da Anderson, il rigido dress code dei suoi personaggi, la sobria finezza degli eloqui hanno sempre evidenziato un’intensa vena nostalgica che mai, tuttavia, si era spinta fino agli anni Trenta, arrivando a modellare il personaggio di Gustave sul temperamento dello scrittore Stefan Zweig (e prendendo ampi spunti, oltre che dai suoi racconti, anche dall’autobiografia, non a caso intitolata Il mondo di ieri) e rincorrendo un’Europa fatta di grandi dimore, di nobili dagli infiniti cognomi, di incombenti venti di guerra e di individui di classe capaci di grandissime azioni. Un universo in procinto di disfarsi che il raffinato Gustave, come ricorda Zero Moustafa ormai anziano, teneva insieme con «grazia magistrale». Per Anderson, un indiretto riferimento a se stesso, alla signorilità con cui si ostina a mettere in scena mondi sospesi in una dimensione di fatto atemporale, incurante delle mode e delle sollecitazioni esterne e volontariamente chiuso in un’atmosfera decadentista che nutre il suo intero immaginario. Il rimpianto, in Grand Budapest Hotel, è introdotto dalla logica del contrasto e alimentato dai riferimenti, più o meno diretti, a un cinema ormai irrimediabilmente demodé. Tra tutti gli esempi di confronto possibili, quello più immediato converge sulla professione del protagonista. Il concierge del 1968, M. Jean, uno Jason Schwartzman spettinato, tabagista, dimesso, disilluso e indiscreto (fa capolino improvvisamente alle spalle del giovane scrittore intento ad ascoltare il racconto di Zero Moustafa quando capisce che si parla di lui, demolendo l’immagine perfettamente centrata dell’inquadratura) è il simbolo di una deriva sulla quale si staglia netta la figura impeccabile di Gustave, artefice di un sistema che invece il povero Jean vede scorrere nella sua residuale esiguità senza alcun entusiasmo. La sostanza cinematografica proviene invece dall’assunzione di toni e inflessioni che occhieggiano all’inconfondibile tocco delle ambientazioni da operetta di Lubitsch e ai thriller di produzione inglese di Hitchcock (pur non disdegnando qualche riferimento al periodo d’oro di Hollywood), dal cui magistero Anderson desume anche un’insolita – per il suo cinema – propensione alla creazione di suspense (la lunga sequenza del Gabelmeister’s Peak o l’assassinio dell’avvocato Kovacs nel Kunstmuseum) e di false piste (la testa decapitata della sorella dal piede equino di Serge creduta quella di Agatha). Grand Budapest Hotel, oltretutto, è un passo successivo in quella riflessione sui meccanismi della narrazione che Anderson porta avanti film dopo film. Se in Il treno per il Darjeeling (The Darjeeling Limited, 2007), la pellicola in cui tale considerazione appare più evidente, la dignità narrativa, l’eventualità di poter raccontare la propria storia scegliendola tra due ipotesi possibili, si conquistava nella corsa precipitosa per raggiungere il treno in partenza che ingaggiavano Adrien Brody e l’onnipresente Bill Murray, nell’ultimo film di Anderson il racconto si scompagina in una serie di cornici concentriche che si originano dal busto commemorativo del narratore, scivolano nel suo racconto in prima persona passando per il libro da lui scritto (con la consueta inquadratura from above sul volume) e approdano alle avventure di Gustave attraverso la rievocazione nostalgica di Zero Moustafa e l’attento ascolto dello stesso scrittore da giovane. Il film si parcellizza in una struttura a matrioska che incastona un’epoca dentro l’altra, scompone i piani narrativi, miscela i punti di vista e assume ironicamente l’onere filologico di incorniciare ulteriormente ogni epoca in un preciso formato cinematografico (la contemporaneità con il 1.78: 1, il 1985 e il 1968 con il 2.35: 1, gli anni Trenta con il classico formato Academy 1.37: 1). Un rimpianto che si converte in omaggio plastico alla nobiltà di un tempo perduto, nel tentativo di eternare una supposta età dell’innocenza, la stessa idealizzata dal regista.