RACCONTARTI LA MIA STORIA MIA HA FATTO SENTIRE A MIO AGIO di Pierpaolo Loffreda
«Tutto è sesso, tutto è sesso. Come può esser bello il sesso, quando l’uomo lo conserva potente e sacro, e quando riempie il mondo. È come il sole che vi inonda e vi penetra della sua luce». (David Herbert Lawrence)
Ma se la mutilazione forzata del film danneggia evidentemente l’ultima opera di Lars von Trier (una summa, a nostro parere, di tutta la sua poetica – almeno espressa finora, visto che il regista danese è ormai abituato a stupirci) dal punto di vista estetico e strutturale, sotto il profilo squisitamente narrativo pone pochi problemi. Le performances sessuali, infatti, in un film che dell’erotismo (e dei suoi risvolti più profondi) fa la sua ragion d’essere (come avviene, ad esempio nelle opere di Walerian Borowczyk, o nei migliori film di Gerard Damiano), interrompono la diegesi, o meglio la sospendono, per dar spazio all’improvvisazione difficilmente prevedibile degli interpreti (o dei figuranti che li sostituiscono momentaneamente) impegnati nel dar vita ai loro personaggi. Si assiste, cioè, allo stesso meccanismo narrativo presente nei film comici, dove la diegesi è intervallata e tenuta in sospeso dai gag (dall’inglese to gag: improvvisare), un sintagma espressivo riconducibile al latino actio (lazzo, in volgare), la cui origine risiede negli smodati e incontrollabili atti dei Fescennini e dei Carmina priapei romani. Quindi sempre di erotismo si tratta, quando si vuole prendere in considerazione qualcosa che ci riguarda profondamente! Come dice lo stesso Gerard Damiano, «L’erotismo non è una moda, è una componente essenziale della nostra vita: ecco perché è sempre attuale e interessa chiunque, in qualsiasi parte del mondo». E sottolinea Joe, nietzschianamente: «L’erotismo è dire sì». Un prorompente, incondizionato, perfino irragionevole sì a se stessi, all’esistenza, al mondo, al vivere. Vediamo come è strutturato complessivamente il film di Lars von Trier. Otto capitoli (la classificazione maniacale è una prassi abbastanza consueta per l’autore) riassumono, in un racconto condotto a ritroso dalla protagonista, la vita di Joe, dalla “scoperta” del suo organo sessuale, avvenuta a due anni, al rinvenimento della donna, svenuta a ferita, da parte del monaco-confessore-assistente-interlocutore Seligman, ebreo e non credente («Il mio nome per gli ebrei significa “Felice”») e lettore appassionato (compulsivo?). Scopriremo che lo stesso “Salvatore Felice” è un più che maturo vergine asessuato, dominato quindi da una perversione uguale e contraria a quella della ninfomane Joe. Ricorda un po’ Origene di Alessandria detto “L’Invincibile”, il Padre della Chiesa (figlio di un martire e vissuto dal 185 al 254 – fra i suoi testi più significativi Esortazione al martirio) autoeviratosi per assecondare l’esortazione di Gesù di Nazareth ai suoi discepoli (Matteo 19, 12): «Rendetevi eunuchi per il Regno dei Cieli». Si parte dal buio (le tenebre) per andare verso la luce (l’aurora). Fin dal prologo Nymphomaniac si configura come un film-saggio: un testo argomentativo, oltre che un racconto filmico. La modalità della messinscena è quella tipica dell’autore, da Il Regno (Riget, 1994-1997) in poi: uso dello scope e mdp mobile, fino a essere agitata freneticamente, colori sgranati, scavalcamenti di campo. È accentuata qui l’esibizione del segno linguistico: alle inquadrature vengono sovrapposte scritte, rilievi grafici esplicativi, e molte sono le riprese di repertorio o pseudodocumentaristiche giustapposte alle sequenze narrative. Lo scopo ci pare quello di evidenziare un percorso esplicativo delle teorie della sessualità attraverso esempi emblematici. Le tappe dell’esistenza di Joe, dall’infanzia alla maturità, rappresentano altrettante situazioni utili a riassumere le idee che, della sessualità, sono state epresse dall’epoca del libertinismo antisistematico, scettico, antimetafisico e anticlericale a oggi. Si parte dall’evocazione della perversione polimorfica dei bambini evidenziata da Sigmund Freud (Tre saggi sulla teoria della sessualità, 1905), per giungere, nel capitolo 8, La pistola, al connubio indissolubile fra sesso oltre ogni limite, morte e senso del sacro cara a George Bataille (cfr. innanzitutto L’erotismo, 1957, ma un po’ tutti i suoi testi, con particolare attenzione a Il Morto, 1967 – gli anni sono quelli delle edizioni ufficiali, non delle stesure dei testi). La vicenda di Joe adulta (e tormentata) rievoca quella di Marie, protagonista di Il Morto: «Era venuto il momento di negare le leggi cui ci assoggetta la paura. Si tolse il vestito e ripiegò l’impermeabile su un braccio. Era pazza e nuda. Si precipitò fuori e corse nella notte sotto la pioggia scrosciante. Le scarpe sguazzavano schioccando nel fango e la pioggia le scorreva per tutto il corpo. La colse un bisogno impellente, ma si trattenne. Nella dolcezza dei boschi, Marie si stese a terra. Pisciò a lungo, l’orina le inondava le gambe. A terra, canticchiava con voce impossibile, demente: “… è nudità / e atrocità…”. Poi si alzò, infilò l’impermeabile e corse per Quilly fino all’uscio della locanda». È evidente in queste frasi anche l’affinità con le situazioni descritte nella seconda parte di Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996): in effetti la discesa agli inferi di Bess ricorda il girone sadomaso attraversato da Joe. Da questo punto di vista ci paiono importanti anche i riferimenti all’opera di De Sade (in particolare Justine o le sventure dela virtù, 1791, e Juliette o le prosperità del vizio, 1801) e di Restif de la Bretonne (l’Anti-Justine, 1798, con cui l’autore polemizza apertamente con Sade, proponendo una visione-prassi della sessualità molto più goduriosa, leggera e appagante, con forti inclinazioni feticistiche e incestuose). Emerge anche l’alta lezione dei maestri Voltaire e Diderot. La prefazione di Sade al suo La filosofia del boudoir (1795), Ai libertini, potrebbe, ad esempio, adattarsi bene come invito agli spettatori di Nymphomaniac: «Voluttuosi d’ogni età e sesso, è a voi soli che offro quest’opera: nutritevi dei suoi principi, essi favoriscono le vostre passioni, e queste passioni, con le quali v’impauriscono i freddi e sciatti moralisti, sono in verità i mezzi che la natura utilizza per far giungere l’uomo al fine ch’essa ha concepito per lui; ascoltate soltanto queste deliziose passioni; la loro voce è la sola che debba condurvi alla felicità». E alla voce Amore, Voltaire, nel suo Dizionario filosofico (1764), scrive: «Nessun altro animale all’infuori dell’uomo conosce quelle strette in cui tutto il corpo è sensibile; quei baci le cui labbra gustano la voluttà che mai non stanca». Il tutto è messo in gioco da Lars von Trier, in questo suo racconto morale, facendo uso di una profonda ironia, di un distacco satirico e dell’humour nero dissacrante caro al regista di Idioti (Idioterne, 1998). Si pensi al personaggio tragi-grottesco di Seligman, alla rappresentazione spoglia e asettica del mondo in cui questi risiede, che richiama gli ambienti di Ordet (id., 1955) di Dreyer, e ai riferimenti argutamente metaforici di alcuni capitoli: in particolare il primo, in cui la pesca con la “mosca” (la larva di quell’insetto non a caso è chiamata “ninfa”) viene evocata a proposito della cattura dei soggetti maschili sui treni, effettuata da Joe e dalla sua amica-complice-istigatrice B. Nel travelling lungo i corridoi, le due vengono accompagnate e sospinte dalle note di Born to Be Wild degli Steppenwolf, che tutti riconduciamo all’avvio dell’avventura dei due protagonisti di Easy Rider (id., 1969) di Dennis Hopper. D’altra parte l’emergere dalle tenebre della protagonista nel vicolo desolato dell’incipit era sostanziato dalle tonalità metal-sataniche del gruppo tedesco Rammstein: la musica ha sempre un ruolo fondamentale nel cinema del regista danese: come nota Nietzsche (Frammenti postumi, primavera 1888): «Quanto poco ci vuole per essere felici! Il suono di una cornamusa… Senza musica la vita sarebbe un errore». Non a caso un intero capitolo del film (il quinto: The Little Organ School) è dedicato alle corrispondenze allegoriche fra la vita sessuale di Joe (e in particolare al suo rapporto sviluppato contemporaneamente con tre amanti molto diversi fra loro), Bach e il Cantus firmus, con, da un lato, considerazioni sul rapporto fra musica polifonica, armonia, numerologia e satanismo, e dall’altro suddivisione dello schermo in tre settori, animati dagli atti sessuali di Joe con i suoi tre accompagnatori e dalle immagini degli animali-feticci che ne rappresentano gli atteggiamenti. In posizione centrale appare (e solo allora il quadro si fa perfetto) Jerome, l’amore della sua vita. Ma a questo punto qualcosa d’improvviso s’infrange: Joe non riesce più a provare piacere proprio nei suoi amplessi con Jerome, che ha sostituito, da solo, tutti gli altri amori occasionali e promuscui. È questa la vera e propria, unica condanna all’inferno che Joe deve subire: per amore perdere il piacere, unica fonte di ogni bene, secondo una visione positiva dell’esistenza che parte da Epicuro e giunge felicemente fino a noi. La dimensione sacra del piacere è sottolineata, all’inizio della seconda parte (o volume) del film, da una sequenza di grande rilievo: l’orgasmo spontaneo vissuto da Joe dodicenne e ancora vergine, accompagnato dalla levitazione della ragazza a dalla visione delle due divinità che segneranno con la loro presenza protettrice la sua vita: Valeria Messalina (a sua volta ninfomane, e moglie dell’erotomane imperatore Claudio) con bambino in braccio (una delle tantissime rappresentazioni “mariane” dell’epoca precristiana), e la Puttana di Babilonia. «Una versone blasfema della trasfigurazione di Cristo!», commenta filologicamente Seligman. Fa seguito il capitolo 6, La chiesa orientale e la chiesa occidentale (la papera silenziosa). La dissertazione, resa attraverso le immagini e le riflessioni, sulla funzione nefasta del cattolicesimo, appare ben circostanziata. Soprattutto viene messo in evidenza il sadomasochismo proprio fin dalle origini di tale religione: «La chiesa occidentale è rappresentata dalla sofferenza», infatti il suo simbolo fondamentale è il crocifisso: un uomo nudo, precedentemente flagellato con trentanove colpi terribili che ne hanno piagato il corpo, appeso a uno strumento di tortura e di morte. Scrive a questo proposito Nietzsche (Frammenti postumi, autunno 1887): «I grandi erotici dell’ideale, i santi della sensualità trasfigurata e incompresa, quei tipici apostoli dell’“amore” (come Gesù di Nazareth, San Francesco d’Assisi, San Francesco di Paola): in loro l’equivocante istinto sessuale si svia per così dire per ignoranza, fino a doversi da ultimo soddisfare con fantasmi: con “Dio”, con “l’uomo”, con la “natura”. (Questa soddisfazione poi non è solo una soddisfazione illusoria: negli estatici dell’“unio mystica” essa si compie, per quanto sempre fuori del loro volere e “capire”, non senza i sintomi fisiologici che accompagnano la più sensibile e naturale soddisfazione sessuale)». E come non rinvenire nelle piaghe al clitoride (per uso troppo reiterato) e nelle profonde ferite alle natiche di Joe (inferte da una frusta identica a quella usata per torturare il Cristo) una evocazione delle stimmate dei santi estatici e virtuosi? Le considerazioni esplicite della protagonista sono puntuali: «La società è codarda tanto quanto le persone che la formano», «Il sentimentalismo è una menzogna», «La sessualità è la forza più potente dell’animo umano», «La morale religiosa ha come fine cancellare la mia oscenità dalla faccia della Terra, così che i borghesi si sentano meglio». Sono dichiarazioni libertine-neitzschiane (cfr. il Nietzsche di Genealogia della morale, 1887, di Il crepuscolo degli idoli e di L’Anticristo, entrambi del 1988), che giungono al culmine con la proclamazione programatica e liberatoria di Joe, mentre dà fuoco a un’auto, sotto le note travolgenti di Burning Down the House dei Talking Heads: «Sono una ninfomane e amo esserlo! E soprattutto amo la mia fica e la mia sporca, lurida lussuria!”». Ci sono molte altre cose in questo film dannatamente ricco e aperto a diverse possibili interpretazioni: citiamo almeno l’importanza del variare il proprio punto di vista per valutare altre ipotesi euristiche: così una vulva fatta lentamente roteare sul suo asse può essere simile a un occhio (cfr. il capolavoro, a nostro avviso, di George Bataille, Storia dell’occhio, 1928, ma pubblicato ufficialmente solo dopo la morte dell’autore, nel 1962). Oppure i riferimenti letterari espliciti (uno per tutti: Edgar Allan Poe: «Un uomo tormentato dall’ansia», come nota Seligman), o l’uso espressivo del bianco e nero nel quarto capitolo, Delirium, in cui viene rappresentato l’orrore senza respiro e senza colori della lunga e lenta morte del padre in ospedale, e il sesso come compensazione del dolore e insieme come droga narcotica; o il registro melodrammatico, ricorrente in Lars von Trier (pensiamo almeno a Le onde del destino e a Dancer in the Dark [id., 2000]) e impiegato qui nella sua accezione di modulazione esasperata all’eccesso: il bambino di Joe (viene definito da lei «Il piccolo innocente») rischia di morire, come il piccolo nell’incipit di Antichrist (id., 2009), mentre lei è impegnata in un rito sadomaso, e la protagonista fugge di casa e abbandona il suo compagno e il figlio nella notte di Natale, per assecondare la propria natura. Ricordiamo poi l’adescamento e l’istruzione (a compiere crimini) della ragazzina (un doppio parodico della protagonista); la temporalità circolare, indice della coazione a ripetere (Thanatos) e dell’eterno ritorno di ciò che è da (e per) sempre insito nell’esperienza e nella concezione umana (le “spinte” in numero di 3 + 5, ripetute sia per Joe che per la ragazzina); la funzione catartica, terapeutica, salvifica della narrazione: «Raccontarti la mia storia mi ha fatto sentire a mio agio», dice Joe a Seligman, nel finale. Ed è proprio il finale del film, accompagnato dalle note di Hey Joe cantata da Charlotte Gainsbourg, mentre la scena – esplicitamente teatrale – ritorna all’oscurità dell’incipit, che ci ricorda come la sessualità sia comunque, oltre che insondabile (ognuno ha la sua) anche irreprimibile (in qualche modo si manifesta comunque, come avviene nella divinità e nei santi ascetici di cui dicevamo), e Joe se ne va per sempre nelle sue tenebre.