Di solito i cineasti americani classici non hanno dimestichezza con l’esegesi delle proprie opere. Possono accoglierle con discreto interesse, di rado affrontarle direttamente. Clint Eastwood, che di questa categoria tradizionale è probabilmente uno degli ultimi esponenti, non fa eccezione. Non si dilunga troppo sui suoi film. Da autore e produttore ne accompagna con correttezza e senso di responsabilità l’uscita con dichiarazioni asciutte, professionali, di circostanza. All’occorrenza molto utili, come è accaduto con Jersey Boys, di cui ha rivendicato la scelta eccentrica di «fare un musical perché mi interessa fare cose che non ho mai fatto prima». La sfida è stata quella rimettersi alla prova non con un soggetto e un impianto vicini alle sue corde, di quelli che consentono agli spettatori appassionati di riconoscere la mano dell’autore. Ha insomma sfidato se stesso, le sue propensioni, contravvenendo a quei generi di riferimento, rigorosamente drammatici, come il western, il poliziesco, il noir, il biopic, il film bellico e quello sportivo. Jersey Boys non somiglia neanche ad altri suoi film, oramai sempre più numerosi, non ascrivibili a un genere preciso, ugualmente drammatici.
Stagioni
In Jersey Boys in pratica Eastwood si adopera in questa direzione accettando il rischio calcolato di toccare gli aspetti più scanzonati della strabiliante ascesa dei Four Seasons (nella prima parte). Sempre nella consapevolezza che la musica, in tutti i sensi, debba poi cambiare (cosa che puntualmente accade nella seconda parte). Il talento, che è anche una condanna o una forma dilazionata di autodistruzione (Bird), in quanto potenza incontrollabile e forza innegabile, corrisponde a un puro istinto di sopravvivenza. Infatti l’amaro consuntivo di Jersey Boys, in virtù della sua ostentata amenità, è che la grande musica e per estensione l’espressione piena di uno stato di grazia creativa nasce esclusivamente da situazioni estreme, frustranti, senza via d’uscita. L’eccezionalità dei Four Seasons deriva dalla condizione di subalternità sociale e culturale preliminare, come accade sul versante agonistico alla squadra sudafricana di Invictus coccolata e pungolata dal comunicatore nonviolento Nelson Mandela. In mancanza di altre chances (la citazione da Francis Scott Fitzgerald che inaugura Bird, «There are no second acts in american lives», suona perciò tanto più emblematica), o di possibilità concrete, l’unica occasione da afferrare al volo è l’eccellenza assoluta, la vetta delle classifiche di vendita, con i suoi tragici, sgradevoli e dolorosi effetti collaterali dilazionati, come l’incapacità di Tommy di trattenersi e non indebitarsi compulsivamente con gli strozzini o l’inevitabile morte della giovane e triste figlia di Frankie, Francine. Per costoro, in quanto tipiche figure eastwoodiane degne di compassione per lo svantaggio iniziale e iniziatico, si tratta di emergere con prepotenza e con risultati inusitati, non di galleggiare. Non ci sono vie di mezzo. I Four Seasons non sono dei ribelli, “delinquenti del rock’n’roll”. Non sono trasgressivi, ma almeno sul palcoscenico, davanti ai loro microfoni, sempre in perfetto ordine, molto garbati, inoffensivi. Addomesticati, inappuntabili, dal principio. Pronti per essere immessi nel circuito commerciale, partecipare come le star musicali di rango al The Ed Sullivan Show ed essere definitivamente inscatolati dal mezzo televisivo e dall’industria discografica.
Stagionatura
Il messaggio è chiaro: non c’è epoca più inquietante di quella che si sforza di non lasciar trasparire altro che allegria, languori sentimentali e spettacoli inoffensivi. Ma per renderlo inequivocabile occorre nell’insieme organizzare il film sul rapporto di causa ed effetto tra ciò che non si vede (o al massimo si intravede) e ciò che per ovvie ragioni si vede e si sente con grande piacere. Quanto più suadente giunge al grande pubblico la splendida voce in falsetto di Frankie Valli (rifatta, in qualche misura straniante, secondo lo stesso principio del trucco artificioso) sia da solista che nelle canzoni dei Four Seasons, tanto più è lecito immaginare una società sconvolta dal sistema mafioso, dalla disparità sociale e razziale. Alla società dello spettacolo spetta perciò il compito di costruire modelli di intrattenimento molto intonati, straordinariamente toccanti e ispirati, proporzionati al grado di pericolosità che mina l’equilibrio su cui si fonda il patto comunitario. Nemmeno lo stagionato Clint Eastwood si tira retrospettivamente fuori da questo meccanismo ideologico della domanda e dell’offerta, allorché fa capolino nel film per un istante rinchiuso nel piccolo schermo nei panni del cowboy Rowdy Yates della serie Rawhide. Non è un cameo, ma l’ammissione critica e matura di corresponsabilità dentro la macchina dello spettacolo da parte dell’ultraottantenne autore odierno verso l’ex attore trentenne a cavallo, è il caso di dire, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio del decennio successivo, prima dell’exploit con Sergio Leone. Da molto tempo, il regista-attore Eastwood ha messo in discussione la propria mitologia. O più correttamente ha scelto di analizzare la storia americana contemporanea servendosi di adeguati strumenti decostruttivi, spesso e volentieri anche coerentemente autodecostruttivi. Non sorprende quindi che sia messo (ancora) in gioco come ex beniamino minore a latere dello star system televisivo, accanto ai Four Season invece al centro di Jersey Boys: quattro “bravi ragazzi” la cui varietà umorale e caratteriale di italoamericani coincide con il ricambio ciclico e la diversità delle stagioni, corrispondente alle quattro porzioni e ai rispettivi ingredienti della pietanza tricolore per antonomasia: la pizza “quattro stagioni”.
L’estraneità del mondo eastwodiano rispetto alla comunità degli italoamericani di Newark, spesso contigui alla compagine mafiosa che vigila e sovraintende a ogni sorta di affari, non è escluso che sia un valore aggiunto. Si potrebbe credere che tale scarsa familiarità con dinamiche culturali già affrontate da autori italoamericani di rango come Francis Ford Coppola o soprattutto Martin Scorsese penalizzi il risultato di Jersey Boys. Invece si ha la sensazione inversa: di un film percorso da inquadrature ariose, fluide, alla Clint Eastwood, che non cerca affatto di mimetizzarsi con un preciso spaccato socioculturale. Dove il confronto con comportamenti, mentalità, modelli organizzativi serve a farne emergere l’antagonismo costante, la morale maschilista e lo spirito provocatorio rispetto agli standard politicamente corretti dell’american way of life. A queste condizioni l’attuale “simpatia” di Clint Eastwood verso gli italiani riflette quella pregressa per i neri, gli asiatici, gli ispanici o i nativi. Di contro, la sua contigua “simpatia” per i vecchi mafiosi pronti a commuoversi ascoltando Frankie Valli, assume una valenza polemica verso la legalità violenta delle forze dell’ordine a lui familiari, un po’ sulla falsariga del Sidney Lumet talmente indignato dagli abusi di potere del sistema legale e dalla corruzione dei poliziotti da dipingere i mafiosi con ironica, provocatoria, paradossale indulgenza già in Il principe della città (Prince of the City, 1981), ma soprattutto nel remake Gloria (id., 1998) e in Prova a incastrarmi (Find Me Guilty, 2006).
In definitiva, per non smarrire e mettere a profitto il filo rosso di Joe Pesci, quello vero, originario anche lui di Newark, quindi un perfetto, sintomatico “Jersey boy” di successo, è importante sottolineare come e perché il film di Eastwood punti a ricordarne il legame stretto con DeVito, Valli, Gaudio e Massi. Pesci, si sa, è più giovane, ma è cresciuto con loro, nello stesso ambiente altamente a rischio (4). La sua biografia di attore e in seguito musicista potrebbe tranquillamente diventare il soggetto per un film simile a Jersey Boy. Eastwood prontamente ha fugato ogni equivoco, a riprova di un approccio preciso, filologico e fitto di concomitanze alla saga infinita degli italiani trapiantati in America, capovolgendo in senso filmico il dato autobiografico, cioè la determinante trasferta di americano in Italia nei western leoniani. E se dopo Il buono, il brutto, il cattivo (1966) le strade di Eastwood e Leone si sono separate, è pur vero che in C’era una volta in America (1984) ritroviamo ancora Joe Pesci nel ruolo del boss mafioso che ingaggia i “Jewish boys” in una serie di imprese criminali ad alto rischio. E chissà che l’ultimo film di Clint Eastwood non sia anche un omaggio inconfessato all’ultimo film del suo primo maestro italiano Sergio Leone.
<span style="\"font-weight:" normal;\"="">(1) http://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/unfilmalgiorno/2014/ 06/14/clint-eastwood-il-mio-musical-sui-four-season_d5169f3d-780e-4b90-a7f0-8e7cfd011ae4.html, ultima consultazione 26 luglio 2014. (2) Cfr. Nicholas Pileggi, Wiseguy, Simon & Schuster, New York 1986 (tr. it. Il delitto paga bene, Rizzoli, Milano 1987). (3) Cfr. http://www.historyvshollywood.com/reelfaces/jersey-boys, ultima consultazione 26 luglio 2014. (4) Cfr. http://time.com/2906538/the-bizarre-fantastic-joe-pesci-link-between-jersey-boys-and-goodfellas, ultima consultazione 26 luglio 2014.