OCCHI SU VENEZIA di Fabrizio Tassi Mettere a fuoco la realtà. Ma anche il cinema. Qual è la lente giusta? (lo stile, il genere, la storia?). Posso davvero guardare le cose con i tuoi occhi, con i suoi? Guardare la realtà come le vede un assassino o la vittima di un assassino, come la vive Pasolini nell’ultimo giorno della sua vita, come la mette in scena a Broadway un ex supereroe, come la scrive il favoloso Leopardi, come la immagina un tassista innamorato in Iran, come la pensa un regista-piccione seduto su un ramo, come la uccide un filosofo-ciclista aspirante suicida, come la percorre un postino russo in un luogo sperduto del Nord, dove il quotidiano è fiabesco e la “realtà” scorre lontana e indifferente, urss o Madre Russia, passato e futuro. Siamo sempre lì. Poi se volete parliamo anche del festival nei tempi della crisi dei festival (europei), del Lido che è sempre il Lido (non diventerà mai la Croisette), della selezione buona o meno buona (contiamo le stelline e facciamo le medie), ovvero ciò di cui parlano e scrivono tutti, “socializzando” le proprie invettive in tempo reale. Lo diciamo subito, così ci togliamo il pensiero: è stata una buona Mostra (buone medie, buone scelte). Detto questo, si sa che ogni festival è soprattutto un concentrato stimolante e confusionario di possibilità (di lenti). Chi ha una sua idea definitiva di come bisognerebbe guardare – un modo “giusto” di fare cinema a cui i film “buoni” e i “bravi” registi dovrebbero assomigliare – di solito ai festival si arrabbia e si annoia. Per altri (per noi) è sempre un’esperienza estatica, per quanto estenuante, il piacere e il privilegio di mendicare sguardi diversi, di uscire dalla propria specifica miopia (i presbiti ormai si dedicano solo alle serie tv, che danno più soddisfazioni immediate). The Look of Silence – per chi scrive: il film del festival – mostra come si fa. Cerca il giusto paio d’occhiali. La lente che metta a fuoco ciò che solitamente non si vede (il protagonista maneggia lenti e occhiali, mentre cerca la verità sul fratello, trucidato insieme a un milione di altri “comunisti”). Perché puoi anche mettere in scena l’orrore, disegnarlo, mimarlo, ma a quel punto l’hai visto davvero, o hai solo guardato la sua rappresentazione, terribile o grottesca che sia? The Act of Killing – visione e rivelazione scioccante delle atrocità commesse in Indonesia, che ci ha svelato il talento spericolato di Joshua Oppenheimer – ora sta dentro la cornice di uno schermo televisivo. Ma alla vittima non può bastare (non basta neanche noi). Vuole vedere cosa vedono gli occhi del carnefice. Forse così la realtà sarà più comprensibile? Forse sarà finalmente reale, non solo un racconto, un pezzo di storia, un rimosso. Perché il presente abbia un senso (perché un futuro sia possibile), bisogna prima imparare a guardare. Non sono certo domande nuove. Ma fa bene tornare a farsele ogni tanto. Tornare al cinema che guarda la realtà e in essa si specchia, per chiedersi ancora quali sono i propri limiti e le proprie possibilità, ma anche qual è il ruolo di chi crea, documenta, racconta, reinventa il mondo attraverso il cinema, in un’epoca in cui la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione e rappresentazione ha definitivamente polverizzato il reale. L’iraniano Ghessena (Tales) è molto più esplicito e didascalico, perché siamo in uno di quei luoghi in cui mostrare la realtà è ancora un reato, in cui il problema è ciò che rimane invisibile agli occhi del mondo: un videomaker si aggira lungo il film e le sue storie per provare a capirci qualcosa. Anche se poi il cinema si esalta quando torna a fare il cinema, nell’ultima sequenza, una delle più belle di tutto il festival, una dichiarazione d’amore tra un lui e una lei su un furgoncino-taxi che passa attraverso lo specchietto retrovisore: tutti e due viaggiano nella stessa direzione, guardano avanti ma sentono il peso di ciò che hanno alle spalle, parlano di ideali (cosa fare per cambiare le cose?), di lotta e di sentimenti, trovando il coraggio di amarsi. Poi c’è Belluscone, che invece è figlio dell’altra faccia della questione, la proliferazione di immagini, fonti, informazioni, che ci rende paradossalmente ciechi e sordi, impotenti. Quale bussola (etica o estetica) utilizzare per orientarsi nel caos? Come si può far vedere ciò che tutti ormai sembrano non riuscire a guardare e capire? Qui l’inchiesta si fa mockumentary, il documento antropologico si intreccia con l’urgenza politica, la ricerca di una qualche verità con la riflessione anche ironica sul mezzo e perfino sui limiti di chi lo utilizza (il regista “invisibile” e ingombrante, che viene mitizzato quasi quanto l’oggetto del discorso). Notevole film. Film necessario. A ognuno il suo sguardo e a ogni sguardo la sua specifica capacità di andare in profondità (o l’inevitabile confinamento alla superficie delle cose, vedi i film di Fatih Akin, David Gordon Green, Benoit Jacquot, Andrew Niccol). Se poi vogliamo andare in cerca di temi e suggestioni, dello “spirito del tempo”, quest’anno è sembrato a molti, anche a noi, che la Mostra del Cinema fosse attraversata in lungo e in largo da un oscuro bisogno di “partire”, cominciare, senza ben sapere dove andare, per poi magari rimanere alla fine nel solito posto (geografico e mentale), ma forse più consapevoli e quindi diversi. Birdman, in apertura di festival, ha indicato la via, gli altri l’hanno seguita, portando il discorso molto più in là (più lontano e più in profondità): riusciremo finalmente a spiccare il volo, a imparare dai nostri errori, ad accettare i nostri limiti? Riusciremo a rinascere domani più giusti, uguali, felici, interi? La questione è insieme personale e collettiva. Prima o poi arriva il momento in cui ci si trova in piedi su una finestra spalancata. E allora le possibilità sono due: precipitare o imparare a volare. La prima soluzione è più verosimile e in fondo banale: è una questione legata alla legge di gravità, al peso degli errori e degli orrori, alla mancanza di leggerezza. Per adottare la seconda (più cinematografica) bisogna avere uno speciale talento, che possibilmente non si limiti al “realismo magico” (il finale del pur ottimo Birdman o i rapitori del cadavere di Chaplin e del suo sogno, raccontati da Beauvois). Come dice il Pasolini di Ferrara, «L’arte narrativa è morta e noi siamo in lutto», tanto vale ri-creare e ri-costruire la realtà sovrapponendo toni, visioni, strati di significato, nella speranza che emerga in trasparenza la verità che non riusciamo più a raccontare. E però è anche (ancora) possibile camminare su strade già battute, con uno sguardo sincero, lucido, diritto, come fa David Oelhoffen (Loin des hommes), facendoci fare uno di quei viaggi in cui quando arrivi sei necessariamente diverso. Cosa che capita anche al ragazzo in cerca di un padre raccontato da Alix Delaporte, in un altro di quei film che hanno il coraggio di essere semplici e diretti, vagamente scapigliati ma anche un po’ sentimentali. E poi quanti mondi lontani abbiamo abitato quest’anno, con i rispettivi sguardi: l’Anatolia violenta e selvaggia, fatta di bambini e cani e camera a mano, vista in Sivas; la Russia profonda, profondissima, sprofondata, felicemente disperata di Konchalovskij; l’epopea cannibale della guerra psichedelica formato Tsukamoto; la Cina di Chuangru zhe (Red Amnesia), smarrita in qualche luogo del passato (Rivoluzione culturale) da cui non è più uscita; l’India dei tribunali irrazionali e del sistema incomprensibile in piani medi, fissi, distanti (Court); l’epopea del debito e della vita che sfugge via insieme al denaro, in Georgia, vista in quadri frontali che imprigionano i protagonisti di Kredits Limiti. E infine, che rivelazione il Leopardi di Martone! Si piega, si accartoccia, sotto il peso della conoscenza e della tradizione, sotto i colpi della vita che lo priva dell’amore di cui avrebbe bisogno, e però si libra nell’aria con la forza del suo desiderio e delle sue parole, con lo smisurato incanto di chi vede davvero, vede oltre. In piedi sulla finestra, lui vede la bellezza dentro la tragedia e l’indifferenza, e vola stando fermo. Se poi volete anche un po’ di contabilità festivaliera, possiamo dire che a conti fatti quest’anno abbiamo avuto una ricca selezione italiana (ottimo Martone, notevole Munzi, sorprendente Maresco, qualcuno ha apprezzato anche Costanzo, non chi scrive) e qualche delusione sul fronte americano (vedi Niccol e Gordon Green, molto meglio Bahrani), abbiamo visto un Concorso di buon livello (con punte altissime, da Andersson a Oppenheimer, da Konchalovskij a Pasolini, opinione personalissima), un Fuori Concorso fin troppo affollato (ringraziamo per il Von Trier integrale, Olive Kitteridge e il furbo e godibile Bogdanovich, il resto era così così nonostante i grandi nomi), un Orizzonti senza scoperte memorabili ma con bei film e un paio di esordi interessanti. In un contesto in cui – lo abbiamo già scritto – il panorama dei festival è cambiato e il marketing cinematografico si sta spostando in altri lidi (se parliamo di grossi calibri americani), in un momento in cui la formula della Mostra-vetrina appare consunta dall’uso, non ci sono alternative alla curiosità (vorace e priva di snobismi), alla scommessa, alla necessità di adottare sguardi diversi, a costo di apparire indecisi, schizofrenici, strabici. Non ha senso “decidere” ciò che vogliamo vedere, ma semmai dare visibilità a quella parte di cinema che rischia di essere schiacciata dai giganti dell’industria (del marketing) e dai prolifici nani della serialità (nani si fa per dire). Serve essere liberi sia dalle pastoie del “deve esserci” (quelli che vorrebbero la solita passerella istituzionale e una collezione di anteprime stampa), sia dal conformismo degli anticonformisti (quelli che vorrebbero un festival “di tendenza”, felicemente pataccaro). L’efficacia di un festival, la sua necessità, si misura meglio quando non ci sono capolavori indiscussi o troppi autori indiscutibili (perché in quei casi è facile…). E quindi anche quest’anno possiamo confermare che siamo sulla strada giusta.