ALLA LUCE DEL GELO di Roberto Chiesi «Di primo acchito si ha subito l’impressione che siate un uomo di valore. […] Voi parlate elevato, e capite tutto, e siete addentro nell’alte sfere, che noialtri non vi possiamo arrivare nemmeno al mento: ma, cuore mio, nel vostro intimo, non c’è mica un’anima di valore… Le manca la forza…» (1). Nel racconto Mia moglie di Antòn Cechov, il vecchio possidente Ivànych per la prima volta esprime all’amico Pàvel Andrèjevic Asòrin, ingegnere e proprietario terriero, che cosa pensi veramente di lui, mentre quest’ultimo non gli paleserà mai il fastidio e il disprezzo che, da parte sua, prova nei confronti del vecchio. Quelle parole, involontariamente, si aggiungono a quelle, non meno impietose, riversate poche ore prima contro Asòrin dalla sua giovane moglie, Natàlia Gavrílovna, che non gli nasconde di avere cessato di amarlo. Schiacciato fra quelle due sentenze, che lo costringono a misurarsi fino in fondo con l’aridità della sua esistenza, l’ingegnere affronta una profonda crisi di coscienza e ritorna dalla moglie deciso a voltare pagina. Erano quindici anni che Nuri Bilge Ceylan accarezzava il progetto di realizzare un film ispirandosi ad alcuni racconti di Cechov e ha derivato il nucleo più importante di Kis uykusu – ossia “Sonno d’inverno” che è anche il titolo internazionale del film (ma quello italiano, Il regno d’inverno, non è infelice) – appunto da Mia moglie e da alcuni elementi di altri racconti cechoviani, in particolare da Brava gente. Dopo Iklimler – Il piacere e l’amore (2006), Le tre scimmie (2008) e C’era una volta in Anatolia (2011), Ceylan ha scritto nuovamente la sceneggiatura con la moglie Ebru, adottando la materia narrativa con libertà e finezza. Il protagonista Aydin (interpretato magistralmente da Haluk Bilginer, famosissimo in Turchia) a differenza dei personaggi cechoviani, non è soltanto un ricco proprietario, di famiglia agiata, che ha sposato una donna assai più giovane di lui come Asòrin di Mia moglie e corrisponde poco ai connotati psicologici del critico letterario Vladímir Sjemjònych di Brava gente, mediocre e vulnerabile nella sua suscettibilità, se non per la sequenza in cui si confronta, con un crescendo di crudeltà, alla sorella frustrata Vjèra Sjemjònovna. A differenziarlo è soprattutto il fatto che sia un attore in pensione, che ha avuto una discreta carriera senza però arrivare al trionfo, fiero di non avere mai partecipato a programmi televisivi, e che ora aspira a scrivere una Storia del teatro turco. Un personaggio, quindi, che unisce in sé una certa cultura e sensibilità con l’esperienza di un abile amministratore del suo patrimonio di famiglia e, al tempo stesso, con l’attitudine alla finzione. Rispetto al racconto di Cechov, i Ceylan hanno reso più impliciti i sentimenti che prova verso la giovane moglie, come si può vedere nella sequenza in cui cerca di coinvolgerla nel progetto umanitario che gli è stato ispirato da una lettera. Nel racconto l’odio di Natàlia nei confronti del marito è più netto e crudo, nel film si nasconde dietro la sufficienza con cui Nihal liquida la lettera di un’estranea, sminuendo così soltanto indirettamente Aydin. Anche la discussione con la moglie, successiva all’incontro di beneficenza che lei ha organizzato a insaputa di lui e da cui gli ha ordinato di allontanarsi, è più aspro e violento nelle pagine di Cechov rispetto al film, da una parte e dall’altra. Infatti nel racconto Asòrin le proibisce di tenere altre riunioni (cosa che Aydin non fa) e la definisce “psicopatica” mentre nel film incassa le aspre parole di lei con una superiorità che la donna non manca di rinfacciargli. Nel racconto Pàvel ha coscienza di non conoscere l’“intimo mondo morale” della moglie, nel film sembra convinto di conoscerla bene anche se condivide con il personaggio cechoviano il dolore dell’ostilità di lei. Nel Regno d’inverno – che ha un respiro e una durata da romanzo e non da racconto – Aydin è un uomo che ha vissuto fino alle soglie della terza età protetto da una falsa idea di se stesso, rispecchiandosi e nascondendosi in una maschera di saggia, generosa e illuminata umanità. In questa maschera si dissimula un lineamento che Ceylan aveva già esplorato con grande finezza in Iklimler, l’aridità dell’egoismo, che qui assume ulteriori connotazioni: il senso di superiorità e il disprezzo nei confronti del prossimo, il paternalismo soffocante e vampiresco verso la moglie, l’ostilità sprezzante dissimulata dalle buone maniere e dall’adesione a una giustizia e legittimità che rimangono astratte e teoriche e non sono mai vissute nella concretezza dei rapporti umani. La rivelazione dei cattivi sentimenti Il disvelamento della reale identità di Aydin si compie nel film grazie a una serie di piccoli atti, come la scelta dell’uomo di rimanere al chiuso della sua automobile, al sicuro, mentre il suo “schiavo” Hidayet reclama spiegazioni dal padre del bambino che ha scagliato un sasso contro il finestrino dell’automobile (2). Scelta che, a sua volta, era stata preceduta dall’autorizzazione che aveva fornito a cuor leggero all’azione legale contro lo stesso Ismail, seguita poi da ipocrisia e ignavia, quando Aydin vorrebbe evitare di incontrare il fratello del debitore, Hamdi, che arriva nella sua casa con il disagio delle scarpe infangate per il lungo viaggio. Nel passato dell’uomo, poi, c’è anche l’episodio poco edificante di quando, dopo il terremoto, preferì accogliere nel suo albergo i soccorritori, anziché dare alloggio alle vittime. Aydin è quindi un uomo che ha sempre mentito a se stesso, illudendosi dell’onestà e lucidità della propria coscienza. Due sono le situazioni, degne di un kammerspiel, in cui è costretto a denudarsi: il dialogo con la moglie (che deriva da Mia moglie) e il dialogo con la sorella (che deriva, più liberamente, da Brava gente), ma, in entrambi i casi, sono anche le sue interlocutrici a rivelare le proprie debolezze in un confronto avvelenato da risentimenti, nel primo caso, e sostenuto da una dialettica affilata e crudele, nel secondo. Come nel cinema di Bergman – che con Cechov, è l’altro nume tutelare del film – sono i cattivi sentimenti ad affiorare dalla realtà profonda non solo del protagonista ma di quasi tutti gli altri personaggi: Necla detesta e probabilmente è gelosa della giovinezza di Nihal, che le riserva una garbata indifferenza, mentre l’imam Hamdi, tutto sorrisi cerimoniosi, si lascia sfuggire parole di odio appena Aydin e Hidayet si sono allontanati. Quanto al fratello Ismail, disoccupato e alcolizzato, è una figura di puro, imploso risentimento che accoglierà il denaro donato da Nihal con una calma inquietante, prima di gettarlo nel fuoco, come Nastassia Philippovna in un celebre brano dell’Idiota di Dostoevskj. La stessa Nihal (come la Natàlia di Cechov) vive come una parassita alle spalle del marito e non ha il coraggio di lasciarlo per affrontare tutte le difficoltà pratiche che ne conseguirebbero. Perfino un ragazzino come Ilyas appare già contagiato dai risentimenti degli adulti: Ceylan si sofferma a inquadrare in dettaglio i suoi sguardi astiosi e, per la tensione emotiva, addirittura sviene quando deve chiedere il perdono di Aydin. Questa decantazione di sentimenti avariati, frustrazioni e egoismo, raggiunge una forte intensità anche visiva, grazie alla pregnanza espressiva dell’ambientazione, sempre essenziale nel cinema di Ceylan, innanzitutto per il contrasto figurativo fra i cromatismi e i luminismi caldi degli interni e il paesaggio lunare della Cappadocia, con le grotte barbariche ammantate dalla dolcezza della neve, in ossimoro rispetto al crudele e desolante teatro morale di quei tre individui che si dilaniano l’un l’altro. Un altro felice contrasto è dato dalla morbidezza con cui sono modellati i contorni dei volti di Aydin e della sorella mentre si stanno torturando reciprocamente, fra i manifesti di Il gabbiano, Antonio e Cleopatra, Caligola e le maschere teatrali (la fotografia è di Gökhan Tiryaki, che ha già collaborato con Ceylan ai precedenti tre film). Oltre all’immanenza del paesaggio la natura irrompe nel film nella bellissima sequenza del cavallo selvaggio prigioniero che cerca di uscire dall’acqua. Un segno stridente della differenza di classe, e quindi della distanza abissale, fra Aydin e i suoi poveri affittuari, è la presenza degli accessori della postmodernità: il pc con cui Aydin scrive e naviga in Internet, il tablet di un giovane ospite dell’albergo, oggetti che accentuano la miseria delle strade e della casa della famiglia di Hamdi. Nella sequenza del dialogo con la sorella, Ceylan ha avuto una bella intuizione plastica: far sdraiare la sorella Necla su un divano alle spalle della scrivania dove Aydin scrive i suoi articoli, così che, ogni volta che vuole guardarla in faccia per risponderle, il fratello deve girare la testa, ossia deve assumere una posizione disagevole, mentre la loro conversazione degenera nella sgradevolezza. Questa soluzione plastica e scenica è stata senz’altro suggerita ai Ceylan da un brano del racconto Brava gente: «La sorella non si sedeva più lì, da presso alla scrivania di lui, e non seguiva con occhi estatici la sua mano intenta a scrivere; e lui, dal canto suo, ogni sera veniva sentendo che alle spalle, sul divano, gli stava una persona lontana dalle sue idee… Ed era come se la schiena gli si facesse di legno, gli s’intorpidisse, mentre nell’anima gli si spandeva un gelo» (3). Mia moglie si concludeva con una catarsi utopica: Asòrin ritorna a casa (senza essere mai partito, esattamente come Aydin) e affida alla moglie tutte le sue sostanze e lei via via dona tutto. Ceylan conclude il film lasciando senza risposta il tentativo di riavvicinamento di Aydin alla moglie. Ma l’immagine finale dell’albergo incastonato nella pietra, dove l’uomo scrive solo nella sua camera, sembra suggerire il protrarsi indefinito di una situazione d’immobilità che non ha soluzione.
(1) Antòn Cechov, Mia moglie, in id., Racconti, trad. di Agostino Villa, Einaudi, Torino 1958, pag. 187. (2) Probabilmente l’idea del sasso deriva dall’episodio di Mia moglie in cui Pàvel viene colpito al volto da un pezzo di neve mentre ritorna dalla stazione in slitta. (3) Antòn Cechov, Brava gente, in id., Racconti, op. cit., pag. 240.