CINEFORUM / 540

Sils Maria

Come molto del cinema di Olivier Assayas anche Sils Maria è un film che parla chiaro, un film limpido, diretto e ricco di evidenze nel quale ciò che viene illustrato e descritto non è altro che ciò che si vede. Incomprensibilmente ignorata dalla giuria dell’ultimo Festival di Cannes, quest’ultima opera del regista parigino è capace di usare il cinema per raccontare il difficile rapporto che lega l’uomo al tempo. Ovvero di utilizzare l’arte che più di tutte ha a che fare con il tempo, che il tempo crea, nasconde, elimina, dilata e distrugge – e che con il tempo gioca – per raccontarne il sottile rapporto con l’esistenza umana. Lo fa, oltretutto, scegliendo di mettere il cinema al centro del racconto e di usare l’arte della rappresentazione (oltre al cinema il teatro) per parlarci di come la vita scorra e muti proprio nella stessa direzione nella quale scorre il tempo e verso cui il tempo la spinge. Nonostante i tentativi che gli uomini fanno per opporsi, per allontanarsi e per interromperne il flusso.
Il film si apre con la morte. Quella del drammaturgo Wilhelm Melchior, colui che ha scoperto e allevato artisticamente la protagonista del film, l’attrice Maria Enders, rendendola la donna e l’artista che è oggi: attrice impegnata e di fama mondiale, ammirata, invidiata e osannata da folle di fan e da una nutrita schiera di attori, registi e colleghi. Una morte che, come un punto di non ritorno, costringe Maria a interrogarsi sul significato dello scorrere del tempo e sulla fragile materialità dei ricordi. Forzata dagli eventi a soggiornare fra le vallate e i picchi montuosi dell’Engadina, a Sils Maria, nei luoghi in cui Wilhelm ha vissuto e fra i quali ha scritto la pièce The Maloja Snake – la prima nella quale Maria ha recitato, appena ventenne, dando il via a una carriera quasi irripetibile – la protagonista si trova in un corto circuito spaziotemporale. Costretta a fare i conti con la morte del proprio mentore e invitata a interpretare, a distanza di vent’anni, lo stesso testo teatrale degli esordi (nella rivisitazione del giovane regista Klaus Diesterweg), Maria non può fare a meno che immergersi nelle reminiscenze della propria giovinezza e nel ricordo di un passato che ora, superati i quarant’anni, assume i contorni di un’epoca lontana e alla quale cerca tuttavia di rimanere aggrappata. Assayas ci mostra una Maria dominata da un forte istinto di resistenza verso ciò che la coinvolge – la serata di gala di Zurigo per ricordare Wilhelm alla quale non vuole partecipare, il ruolo nella rivisitazione di The Maloja Snake che da principio respinge con tutte le forze – ma che alla fine sceglie, in ognuno dei casi, di sperimentare. Rifiuti che sono soprattutto testimonianza di un’indole profondamente restia al cambiamento e al compromesso. E costituiscono la prova più lampante non solo di un sopraggiunto indurimento e di un’istintiva diffidenza, nel carattere della donna, nei confronti dell’imprevisto e del nuovo, ma anche il modo attraverso cui il regista mostra l’inconsapevole adesione della propria eroina a una logica di pensiero che non contempla più gli azzardi della giovinezza. O, meglio, che ha smarrito il coraggio di rischiare. Chiusa nel rifiuto di essere Helena, la donna matura che nella pièce di Wilhelm si fa sedurre da Sigrid, una ragazza di appena vent’anni, perché convinta di avere molte più cose in comune con la seconda piuttosto che con la prima, Maria si cristallizza in un ideale di giovinezza del quale è, però, lei stessa l’inconsapevole più strenua avversaria. Il lento percorso che Assayas, con una maestria straordinaria (quella della scrittura, della costruzione drammaturgica e della definizione dei personaggi), tratteggia sotto i piedi della propria protagonista – percorso al compimento del quale Maria deciderà probabilmente di accettare l’inconsueto (per lei) ruolo dell’aliena mutante nel film di un giovane regista semiesordiente – la conduce a una nuova presa di coscienza sulla vita, sulla morte e sul tempo, e si delinea in maniera molto evidente attraverso le relazioni che stringe con chi le sta a fianco. Come frammenti di uno specchio che riflettono il volto della protagonista in copie tutte differenti dall’originale, il regista ci mostra infatti una serie di personaggi circondare Maria come una folla di suoi alter ego. A cominciare da Valentine, la giovane assistente che, trincerata dietro la professionalità del proprio ruolo, nasconde una fragilità e un’insicurezza che sono le stesse che furono della Maria giovane: quella che emerge dai ricordi e dai racconti e che scopriamo essere stata innamorata di Melchior e aver ceduto alle avances del collega Henryk di parecchi anni più vecchio di lei. Ma a ben vedere è un riflesso della personalità della donna anche la stessa Jo-Ann, l’attrice che interpreta Sigrid nel nuovo spettacolo e che, pur diversissima da Maria, ci appare quasi come un’incarnazione della sua giovinezza. Quando nel finale del film Maria le chiede di rivolgerle uno sguardo distratto e fugace sul palco prima di uscire definitivamente di scena – uno sguardo che le renda la giustizia del suo ruolo, che le restituisca dignità anche nella sconfitta, che ne affermi l’esistenza – Jo-Ann si rifiuta di farlo. Quasi a spingerla, attraverso tale diniego, a coincidere con il personaggio di Helena, decretandone l’uscita definitiva da quello di Sigrid. E infine c’è Rosa, la vedova di Melchior, a mostrarci l’ultimo e il più estremo lato della soggettività di Maria, all’interno di questo universo sospeso nel tempo e quasi disabitato (non per caso) dagli uomini che è Sils Maria. Rosa è la donna che è rimasta sola e che senza più marito e senza figli scappa via perché attanagliata dai ricordi. Non troppo diversamente da Maria (che ha appena divorziato), in fuga dal passato, in fuga dalla vita.
Eppure questo di Assayas non è un film sulle illusioni perdute, sui rimpianti o sul tempo sprecato. No, è un film che tende invece ad affermare, forse rivendicare, l’inevitabilità dello scorrere del tempo. In fondo il tempo, come dicevamo e come il regista dà prova di tenere a dimostrare, è un elemento che somiglia molto al cinema e che oltre a esserne un costituente fondamentale, è anche uno degli aspetti più utili per decifrare l’essenza della Settima arte. Il film di Arnold Fank datato 1924, Das Wolkenphaenomenon von Maloja, che Assayas cita, omaggia e del quale ripete, a più riprese, alcune delle inquadrature più suggestive, è la testimonianza di quanto sia importante per il regista parigino il rapporto che si crea, al cinema, fra la suggestione e la ripetizione. E l’affascinante spettacolo delle nubi che entrano sinuose attraverso il passo del Maloja nella valle dell’Engadina, formando un lungo serpente bianco, fenomeno che si ripete immutabile da millenni, non sembra troppo dissimile dall’essenza del cinema. Il suo identico perpetuarsi attraverso il tempo ricorda infatti la stessa ripetizione e la reiterazione propria dello spettacolo cinematografico. Ed è proprio come se assistesse a una proiezione che Maria, nel momento più evocativo del film, osservando dall’alto le nubi scavalcare il passo e invadere la valle, prende coscienza del proprio ruolo. Laddove il ruolo è insieme quello di Helena, che alla fine si convince di interpretare, e il ruolo di attrice e di donna che finalmente cessa di vivere la giovinezza come un’avversaria e come un ostacolo. Assayas, nella bella intervista apparsa su Cineforum.it a cura di Roberto Manassero, definisce il cinema come un’arte della giovinezza. Quasi a voler dire che il cinema è, come la giovinezza, un elemento che vive di istinti e agisce per impulsi. Ma anche che la giovinezza è quella che si rinnova ogni volta in chi – e forse questo è vero per tutte le arti – prende parte allo spettacolo: sia esso creatore, interprete o sempliememente spettatore. Maria le sue nubi – quelle che nel titolo originale, Clouds of Sils Maria, sono non a caso poste in relazione al nome della protagonista, laddove il toponimo è chiaramente tutt’uno con il nome proprio – non le dissolve mai del tutto e forse mai ci riuscirà, ma nel momento in cui le vede materializzarsi compie il suo passo in avanti. E a quel punto, girandosi, non trova più Valentine, svanita nel nulla perché sconfitta dalla futilità del proprio ruolo forse, come ci dice la diegesi, eppure molto più probabilmente svanita perché non è più il lato cui Maria si ribella ma è il riflesso (il ricordo) della giovinezza che la donna ha finalmente accettato. Dato che ora lei, nonostante le nubi, vede tutto più chiaramente.