Di quale sostanza sia fatto il cinema è un tema appassionante che percorre in filigrana la storia della critica e dà un senso alle visioni dei cinefili più consapevoli, quelli che non limitano la loro passione a un accumulo enciclopedico di titoli e filmografie e inquadrature/sequenze “memorabili”. Tra i film di cui trattiamo in questo numero ce ne sono tre che lo ripropongono con la forza acquisita dall’evidenza della loro derivazione, accompagnata da una consapevolezza narrativa, linguistica ed espressiva del tutto evidente.
Teatro, letteratura, pittura, musica sono le arti che, fino dagli inizi, hanno contribuito a dare corpo al cinema e ai film, legittimandone la vocazione a essere per eccellenza l’espressione artistica più conforme allo spirito della modernità (quella modernità, per intenderci, inaugurata dalla ricerca programmaticamente multidisciplinare delle avanguardie). Il cinema degli esordi dichiara senza remore e senza sentimenti di inferiorità i suoi debiti nei confronti di un passato che è insieme ingombrante ma anche fertile di frutti da cogliere e trasformare nell’intento di conquistare un proprio pubblico, in bilico tra divertimento popolare e aspirazione a uno status culturale riconoscibile. L’anima pop e il registro elevato possono coesistere dunque in una relazione fatta di entusiasmo e grandi speranze, che a prima vista sembra facile e superficiale ma sulla quale il cinema inizia da subito a lavorare con impegno per trovare una sua, sia pur avventurosa, identità.
Se nel corso del tempo questo dialogo è proceduto alternando ai (prevalenti) momenti di routinaria osmosi o di opportunistica vampirizzazione quelli (ben più rari) in cui dal cinema (dai film) venivano formulate domande in grado di svelare un interesse non superficiale all’intreccio dei linguaggi, ciò è sempre stato il prodotto della sensibilità e del tocco del singolo cineasta.
Non è certo in queste poche righe che si può tentare di tirare le somme su un argomento così vasto e complesso. Ma la combinazione dell’uscita in sala di Birdman, Turner e Whiplash ci offre comunque la sorpresa di una convergenza di risultati in grado di mostrare come sia possibile filmare con maestria e consapevolezza – partendo da posizioni e intenti fra loro così diversi – il tema sfuggente della presenza di altre forme di espressione artistica nell’orizzonte degli eventi del fare cinema, e, di contro, di quanti e quali siano gli spazi da esse offerti per essere a loro volta abitate da quest’ultimo, e così, in un certo modo, trovare compiutezza. E mi pare necessario rilevare come questa convergenza trovi il suo punto di fuga nell’idea sottesa ai tre film, che riporta alla pratica artistica come mestiere, lavoro che necessita di applicazione, sforzo, concentrazione, conflitto, e sovente di una ritrosia sentimentale che può facilmente passare per aridità. Per comprendere ciò che un artista (attore, pittore, batterista) è in grado di realizzare può essere dunque importante sapere come è arrivato, per quali vie a volte strane e tortuose, a padroneggiare la lettera e lo spirito della tecnica che finalmente dimostra di esprimere. Un punto di vista importante, che non resta senza conseguenze circa la verità da cogliere anche su cosa intendiamo quando parliamo di arte cinematografica.