L’Italia è il Paese delle lunghe amnesie e dei miracoli inattesi: lo conferma la distribuzione di National Gallery, l’ultimo film di Frederick Wiseman, uno fra i più grandi autori contemporanei che lungo quarantotto anni (e quaranta film, da Titicut Follies [1967], a At Berkeley [2013]) era sempre stato sistematicamente ignorato dai distributori d’essai nostrani (1). Bisogna quindi essere riconoscenti a I Wonder Pictures e a Nexo Digital di avere interrotto questo lungo oblio, senza dimenticare la Mostra del cinema di Venezia che nel 2014 gli ha tributato il Leone d’oro alla carriera favorendo così l’uscita nelle sale italiane di un suo film (sia pure circoscritta a un solo giorno…). Non che l’opera di Wiseman fosse oscura e ignorata, data la costante presenza dei suoi film a Venezia, Torino e in altri festival. Ricordiamo che nel 1999 venne trasmessa in tv una retrospettiva quasi integrale grazie a una rete satellitare, Planète, che aveva una programmazione esemplare (e che quindi è stata presto soppressa). Negli ultimi quindici anni, inoltre, numerosi film di Wiseman sono stati trasmessi più volte in versione originale con sottotitoli, nell’ambito di “Fuori orario”, la grande “oasi” televisiva che, per merito di Enrico Ghezzi, Roberto Turigliatto e dei loro collaboratori, riscatta da decenni le lacune più gravi della distribuzione cinematografica nostrana. In quasi mezzo secolo, Wiseman ha filmato una sterminata topografia di spazi pubblici e istituzionali e gli uomini e donne che li vivono, vi lavorano o li attraversano incidentalmente: manicomi, licei, centrali di polizia, ospedali, centri di addestramento, tribunali minorili, zoo, industrie alimentari, presidi di confine, agenzie di moda, parchi pubblici, località sciistiche, reparti terminali di ospedali eccetera. Luoghi e uomini: la realtà di questi spazi e individui è svelata da azioni, parole, frangenti la cui nuda ed espressiva immediatezza è offerta, senza nessun commento, allo sguardo dello spettatore. Il linguaggio è volutamente frammentario, a mosaico, basato sull’alternarsi di ambienti ricorrenti o meno. Film dopo film, mosaico dopo mosaico, Wiseman ha così composto un affresco sulla società statunitense (e occidentale) senza mai imporre angolazioni univoche e definitive ma sviscerando le diverse problematiche sociali e individuali in tutta la loro complessità e contraddittorietà. Un cinema antropologico, perché osserva i volti e i comportamenti di decine di individui, di ogni classe, mostrati in situazioni che ne condensano la storia e la natura; un cinema di analisi sociale, perché deriva dal montaggio di sequenze che diventano rivelatrici dell’identità e della prassi di quelle istituzioni che costituiscono i pilastri della democrazia di un Paese, ma senza didatticismi né partiti presi. Un cinema, inoltre, che deriva la sua forza estetica dal rigore della contemplazione del “corpo” di un luogo così come delle luci degli sguardi e dei movimenti o immobilità dei volti degli individui filmati. Dal 1995 Wiseman ha iniziato a interessarsi ai microcosmi dell’arte (la danza in Ballet e La danse; il teatro in La Comédie française), quindi l’anno dopo ha iniziato a viaggiare anche in Europa (pur continuando a ritornare regolarmente negli Stati Uniti) per filmare, appunto, la Comédie Française, il Crazy Horse, le Ballet de l’Opéra a Parigi. Dopo una parentesi sulla boxe – e quindi sulla violenza – (Boxing Gym), e un film sull’università californiana di Berkeley, ha potuto realizzare (fra metà gennaio e metà marzo del 2012) l’antico progetto di un film su un grande museo e ha scelto la National Gallery londinese per la ricchezza delle sue collezioni (duemilaquattrocento quadri) e l’arco di tempo che coprono (dal Tredicesimo al Diciannovesimo secolo).