Partiamo da una scena, la levitazione del monaco buddista accompagnata da un estratto di Storm dei Godspeed You! Black Emperor. È un piano sequenza, con il monaco di spalle che, seduto sull’erba a gambe incrociate davanti a un panorama di montagna mozzafiato, a poco a poco si libra nell’aria, mentre la macchina da presa, con un movimento prospettico in lieve travelling, ne segue l’ascesa. È evidente il trucco nello stile di ripresa, stravagante e abbastanza stordente, e potrebbe anche essere un sogno di Fred Ballinger, che poco prima si dice sarcasticamente diffidente sul processo antigravitazionale che la meditazione del monaco stesso dovrebbe scatenare. È un trucco del cinema, e forse un sogno del protagonista, in un film fatto solo di trucchi e di sogni. Sorrentino denuda completamente il proprio immaginario estetico, con più ingenuità rispetto al passato ma pure con più tenacia, e ne scopre il make up, evidenziandolo sopra ogni barocchismo, sopra ogni virgolettata nauseante; prima di tutto, prima di qualsivoglia discorso superficiale, di qualunque massima esistenziale, addirittura prima della struttura drammaturgico-operistica, egli ne rivela l’artificiosità stupefacente, come se, ancor più dello spettatore, egli stesso si stupisca in corso della bellezza da mille e una notte del cinema. Bellezza e infinite possibilità, quasi a ripartire dal grado zero: con Youth, Sorrentino sembra trovare da vergine il Sacro Graal delle immagini in movimento, peccando ovviamente per eccesso (ma a questo siamo abituati) eppure al contempo recuperando dall’oblio una forma primitiva di meraviglia, greve fin che vogliamo però non meno giusta. In questo senso, mi pare che la levitazione del monaco rappresenti il giro di boa del film, e la sua epigrafe. Con l’uso non malizioso, e invece sentitissimo, a suo modo onestissimo, ma dell’onestà della percezione pura, disposta ad accogliere senza sovrastrutture, disposta a guardare e ad ascoltare come fosse sempre la prima volta, con l’uso assolutamente passionale ed essenzialmente sentimentale del crescendo post rock del collettivo canadese, tratto dal loro secondo album di quindici anni fa Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven, Sorrentino svela definitivamente ambizioni e sguardi, adoperando l’enfasi come consapevolezza della forza irresistibile della magia. Naturale e prevedibile che in tutta questa schiettezza spoglia, in questa ingenuità scoperta, un film come Youth sia oggi indifeso e bersaglio perfetto del cinismo critico, anche perché Sorrentino ci mette del suo, e molto. Ma è tutto un trucco, o un sogno, che però è lo stesso. Da un concerto improvvisato di muggiti e campanacci di vacche (con buone probabilità l’invenzione più volgare di tutto il cinema sorrentiniano, assieme alla scena di sesso nel bosco) fino al concerto finale con la soprano Sumi Jo, passando per l’assolo reiterato di Ballinger con la carta della caramella Rossana, Youth insegue l’immaginazione libera, fantasticando sulla realtà mentre della realtà mette in scena la fine. Non è casuale che il film, terminata la direzione orchestrale di Ballinger per la Regina, si chiuda con il silenzio, senza l’applauso della platea: perché forse è tutto un sogno, per l’appunto, l’illusione di un uomo di un ritorno sulle scene o di una giovinezza ormai impossibile, nei confini di una fama perduta che si sta via via sciogliendo e di un’apatia emotiva sempre più claustrofobica; e in particolare perché Sorrentino, nel suo circo ovviamente felliniano e ovviamente squilibrato (quando mai i sogni hanno un equilibrio?), sa bene che dietro ogni trucco si nasconde la tragedia del reale, che quando si mostra è ancora più nuda, ancora più disarmata di ogni possibile spontaneità di sguardo, e in ciò spaventosa. La visita veneziana di Ballinger alla moglie malata, per un dialogo con lei impraticabile e dunque destinato a rimanere – ancora una volta – un assolo, è emblematica sia di uno stato, sia di una sorte; e quell’urlo muto e perpetuo della donna, paralizzata alla finestra in una maschera munchiana di orrore inespresso, sembra essere per il marito la conferma di una solitudine esistenziale a cui il sogno, l’illusione e il trucco riescono a porre rimedio soltanto per poco, e per momenti brevi. Per un monaco che miracolosamente levita, c’è un Maradona che trova soddisfazione solo in un palleggio ininterrotto e solitario verso il cielo (altro trucco, altra illusione), mentre lui però è legato a terra dalla gravità della sua pancia enorme. Più che un’opera sinfonica, Youth è allora un film di assoli che faticano a trovare una qualunque condivisione. Altro che amicizia, amore, desiderio: dietro la maschera c’è l’isolamento, la separazione dalla felicità, l’emarginazione dalla gioia. Tanto che truccarsi da Hitler, quando si è giovani e di successo come Jimmy, più che uno sberleffo sembra essere una smorfia rugosa di dolore, l’accettazione contemporanea, odierna, di un abbandono. Ma forse anche questo è un trucco. E forse l’inganno c’è. Youth, che di illusioni è pieno, è un film sulla maschera come condizione necessaria, anche quando non voluta. Maschere di giovinezza (la ragazzina con l’apparecchio ai denti), maschere di vecchiaia (Jane Fonda con l’attaccatura della parrucca ben visibile), maschere di corpi (il Maradona che guarda nel vuoto pensando al futuro). Per Sorrentino, la maschera è un fatto della vita, e tutti i suoi film, con il loro grottesco esibito, lo dimostrano. Ma qui essa diventa sintesi limpida, più limpida di un bicchiere d’acqua limpida e dunque trasparente e facilmente trascurabile, di un’intera visione del mondo e del cinema, di cui il regista si fa prepotente paladino: una visione manipolatoria ma fatta di trucchi “casalinghi”, elementari, manifesti, una visione di astuzia rudimentale che conduce personaggi e pubblico verso un certo qual sbigottimento rivelatorio. Come se il cinema non avesse compiuto ancora dieci anni, come se al cinema il gioco di prestigio fosse più importante del suo senso ultimo. Un gioco di prestigio tutt’altro che sofisticato, come tutt’altro che sofisticato è il cinema di Sorrentino. In Youth il make up ostentato, sia quello dei personaggi, sia quello della confezione del film, è la celebrazione di una tecnica e insieme un sintomo di malessere. Di Mick e Fred si evoca la gloria passata, mentre il presente e il futuro non mettono di buon umore. Maschere fra le maschere, i due protagonisti scelgono dunque l’illusione (di un nuovo progetto cinematografico, di rilavorare con la propria star preferita, di riavvicinarsi all’affetto della figlia, di fuggire per sempre dal caos), almeno fino a quando la realtà non ritrova la strada di casa e non riprende il sopravvento. Allora qualsiasi magia è inutile: la scena di Fred con la moglie possiede la durezza e il rigore che mai t’aspetteresti da Sorrentino, un’improvvisa e sconvolgente chiamata non alle armi ma alla coscienza delle cose che in un film così sfarzoso – anche musicalmente – come uno show d’illusionismo, spettacolare e anche tronfio, persuasivo e anche pomposo, funge da campanello d’allarme. Una volta tanto, non serve ricordare gli amori e gli elogi trascorsi, i primi amori, gli elogi della popolarità, gli amori idealizzati e gli elogi comodi, ossessione sorrentiniana peraltro ricorrente; in Youth di nostalgia ce n’è ben poca, solo il tempo di un ricordo comune, magari un aneddoto, per giunta offuscato dalla vecchiaia e dall’inevitabile dimenticanza. A esserci, in Youth, a essere qui, adesso, è una processione instancabile di maquillage deforme che sarebbe piaciuta a Ferreri, il funerale della partecipazione comune, della collettività. E Sorrentino lo festeggia con un impianto d’apparenze che, al di là della simulazione, oltre lo specchio, fa trapelare malinconia e dolore. Ma non la solita malinconia dei vecchi e il solito dolore per l’avvicinarsi della morte, piuttosto una malinconia e un dolore che non trovano risposte, che lasciano inerti, passivi. Ci sono poche magie da fare: questo cinema nudo di Sorrentino, così nudo da creare imbarazzo, che sembra essere un bambino nudo, alla ricerca costante di una grande bellezza e col quale è difficile sostenere lo sguardo, al pari della performance conclusiva di Ballinger non ha bisogno d’applausi, non li può avere, e forse non se li merita neanche; però è un cinema che lascia sbigottiti, nel bene e nel male, per la spudoratezza e per il candore svergognato, la ridondanza artefatta e la retorica studiata, come un trucco che si squaglia, come un’illusione che s’infrange contro la dura realtà.