Nello speciale che questo numero di «Cineforum» dedica a Pierpaolo Pasolini si è voluto sottolineare l’aspetto antinomico che circola nel lavoro dell’ultimo periodo dell’intellettuale-regista-scrittore di Casarsa. Antinomia che riguarda la contrapposizione/confronto tra la scelta della chiusura (con il presente, con la speranza) e il gesto intellettuale e morale di un’apertura che sembra, nonostante tutto, non voler rinunciare a proporsi. Anche quando le parole appaiono dire il contrario. Lo si è voluto sottolineare con interventi differenti tra loro per argomento e modalità d’approccio, tutti però accomunati dalla presenza di questo fattore d’inquietudine (etica, politica, estetica) in grado di fare del pensiero e dell’opera pasoliniani non soltanto una testimonianza di straordinaria combattività rispetto ai tempi in cui si dispiegarono, ma anche i veicoli di una ricerca di intelligenza dell’altro, tanto più sorprendente anche ora in quanto mossa da un territorio di diversità radicale e così poco incline al compromesso. Abbiamo scelto di partire da un’intervista inedita, realizzata per una radio tedesca pochi mesi prima della morte, nel corso della quale Pasolini pone il problema dell’inconsapevolezza come una sorta di elemento costitutivo dell’italianità nella Storia e nella politica, che fa degli abitanti della Penisola e dei loro rappresentanti istituzionali vittime e insieme responsabili di quanto è avvenuto e avviene loro. Indifesi e mostruosi allo stesso tempo: dunque meritevoli insieme di comprensione e di condanna. Riconducibile alla medesima duplicità è l’affermazione pasoliniana sui giovani del sottoproletariato romano che «potenzialmente» erano immondizia umana già quando «erano costretti a essere adorabili». Tullio Masoni nel suo contributo lavora proprio su quell’avverbio, potenzialmente, che marca «una discesa verso la disperazione (una “disperata vitalità”) che però contempla gradi diversi, parziali, di pessimismo e di speranza». Un film mai portato a termine su di uno sciopero dei netturbini romani, Appunti per un romanzo sull’immondezza, segna l’inizio degli anni Settanta: la miseria, la fatica, «la lotta giornaliera, destinata a ripetersi in eterno» (Roberto Chiesi, il corsivo è mio) con la materia bruta del pattume avrebbero dovuto costituire la prosa di un film che non voleva però rifiutare l’apertura lirica di un commento in versi scritto appositamente. E per un film mai concluso, eccone un altro mai iniziato ma che quasi sicuramente avrebbe visto la luce a partire da quel Petrolio, romanzo incompiuto, «vera pietra dello scandalo». Ma anche a partire da un’ipotesi come questa, suggerisce Anton Giulio Mancino, alla «geometria concettuale che non avrebbe concesso scampo» non sarebbe mancato il controcanto dello sdegno civile in grado di aprire su una dimensione politica, di cui purtroppo non potremo mai quantificare la portata. Infine, la dimensione in cui il tragico e il patetico si abbracciano come forse solo due ombre potrebbero. Negli anni immediatamente successivi all’omicidio, un autore come Fassbinder dà vita a un cinema che è figlio della stessa disposizione verso la vita, la Storia e il corpo (il proprio, quello degli altri). E qui non può più essere Pasolini, ormai, protagonista del gesto, ma il regista tedesco di quel Berlin Alexanderplatz, nel cui Epilogo Matteo Marelli rintraccia il «richiamo evidente al finale di La ricotta» e una scena di tortura «quasi sicuramente ispirata a Salò».