Inside Out è un film su cui si è già detto tutto e il contrario di tutto. Un film su cui si è detto anche troppo, tanto da trasformarlo in un vero e proprio fenomeno di costume su cui, come è noto, si sono sentite di intervenire pubblicamente anche persone che col cinema hanno poco a che fare. Saranno stati forse il tema di base (la psiche umana), il successo ottenuto in sala (è uno dei massimi incassi degli ultimi tempi) o i riscontri quasi unanimi della critica (per molti è tra i capolavori dell’anno, e forse non solo), ad aver fatto sì che Inside Out abbia generato un dibattito così ampio che, quantomeno, merita tutte le attenzioni del caso. Eppure, probabilmente proprio per la sua straordinaria forza emotiva, quasi tutti i contributi si sono fermati ad analizzare la sfera delle emozioni (parlando anche di quelle che mancano… sigh), spesso limitandosi a sottolineare la forza di un messaggio che spiega come queste debbano convivere per potersi equilibrare (c’è bisogno della Tristezza per trovare la Gioia) e a evidenziare come quelle sensazioni siano magnificamente restituite a un pubblico che non può che ridere, piangere ed emozionarsi di fronte a un’operazione di tale portata concettuale e formale. Certo, la coinvolgente storia di Riley – una ragazzina costretta a seguire il lavoro paterno dal Minnesota a San Francisco – è una struggente metafora della fine dell’infanzia, simboleggiata dallo straziante saluto all’amico immaginario in una delle sequenze più commoventi di sempre; ma sicuramente, se di queste figure retoriche si vuole parlare, c’è anche qualcosa di più. Già, perché la Pixar ci mostra la mente umana come una grande metafora (del) digitale, stratificata su più livelli. Cos’è il cervello di Riley se non un’affascinante rappresentazione di un grande archivio personale? Digitale naturalmente, perché per fare spazio a nuovi dati siamo costretti a cancellarne di vecchi, eliminandoli in una frazione di secondo, il tempo di un clic con il mouse. L’oscuro abisso in cui finiscono i ricordi dimenticati (o da dimenticare) funge da cartella cestino in cui sono destinati a languire prima dello svuotamento definitivo e dell’eliminazione irrimediabile: un destino triste che accomuna memorie umane e file, in fondo anch’essi parti di un vissuto, siano foto, email o conversazioni, ogni elemento è destinato a essere inghiottito dall’eterno oblio. Inside Out, così, entra in quel novero di film recenti che simboleggiano efficacemente quell’ossessione dell’archiviazione che è diventata una delle “necessità” della realtà contemporanea. Le immagini della nostra vita si vanno a collocare in spazi che riteniamo “nostri”, siano essi un luogo privato e “inaccessibile” agli altri (una cartella protetta all’interno di un personal computer), oppure spazi condivisi (Facebook e social network). Così l’archivio, anche seguendo un senso di derridiana memoria (1), si trasforma nel luogo dove sono le immagini (le fotografie in particolare) la modalità espressiva più adeguata per ricordare e soddisfare questa esigenza che oggi, attraverso la digitalizzazione, è diventata ancora più forte e impellente. A volte condividendo, altre volte preservando dentro di sé. Indubbiamente, Inside Out (analogamente a un altro grande film recente, in questo senso troppo sottovalutato, come Inception di Christopher Nolan) appartiene alla seconda categoria dato che la nostra mente è quanto di più personale ci possa essere. Esattamente come un archivio digitale. È qui che, facendo delle ricerche, si può ritrovare per caso un vecchio file video-audio di qualsiasi formato che, una volta riscoperto, torniamo sempre a (ri)vedere o a (ri)ascoltare, come la pubblicità della gomma in Inside Out che affiora nella memoria di Riley quando meno la ragazzina se lo aspetta. È qui che possiamo tenere nascosti i nostri sentimenti più reconditi (il ragazzo immaginario), i momenti che non vogliamo dimenticare (le partite a hockey, le giornate allegre in famiglia o con gli amici) e, persino, quelli che non vorremmo più rivedere ma dai quali non riusciamo a separarci (i mostri che abitano il nostro subconscio, come il terrificante clown Jangles). In questo modo, Inside Out presenta il nostro cervello come una grande banca dati da aggiornare costantemente, e lo rappresenta esplicitamente, immaginando uno sconfinato labirinto dei ricordi, dove ogni episodio viene ordinato su uno scaffale da cui può essere recuperato o eliminato, come un file; o, per i collezionisti, come un oggetto da conservare gelosamente o scambiare: un archivio, appunto, o una cineteca. Del resto, il lungometraggio di Pete Docter è stato anche letto da alcuni (e, pur sempre, a ragione) come una grande metafora del mondo del cinema: Rabbia, Gioia, Tristezza, Disgusto e Paura sono gli spettatori di un film prevalentemente in soggettiva, da guardare con gli occhi di Riley, ma anche di vecchie pellicole attraverso le quali le emozioni riescono a vedere la propria ospite dal di fuori (niente di incoerente, per carità, è normale ripensare ai propri ricordi come se si fosse “esterni” a quanto avvenuto). Una luce proietta le memorie di Riley sullo schermo, esattamente come avviene in una sala cinematografica, e le cinque emozioni possono riviverle insieme a lei, come un pubblico capace di immedesimarsi con i protagonisti di un film qualsiasi. La metafora sulla Settima arte diventa ancor più concreta quando Gioia e Tristezza finiscono nella “Fabbrica dei Sogni”, un vero e proprio set dove, con attori e cineprese, si inventa e si filma il mondo onirico della giovane Riley, con tanto di sceneggiature modificabili in corso d’opera e divi ricorrenti come Miss Unicorno. Un film sul cinema? Sì, probabilmente Inside Out è anche questo, ma quel grande schermo che si accende quando la protagonista apre gli occhi può apparire anche (e forse di più) come lo schermo di un computer dove rivedere vecchi file e, ormai, vivere in soggettiva la propria vita. Ma non solo, in seguito agli stimoli inviati dalle proprie emozioni, Riley reagisce, si accende, decide, vive: un meccanismo azione-reazione che qualcuno ha criticato perché poco credibile, troppo istintivo, incurante dell’influenza del libero arbitrio. Eppure, basta fermarsi a riflettere per un attimo sulla socialità contemporanea, eminentemente virtuale, e sul modo che abbiamo di rapportarci sia al nostro altro-da-sé, il nostro avatar, sia ai nostri contatti. L’emozione, quella più immediata, viscerale, istintiva, guida le nostre azioni social: cliccare il pulsante del “like” su Facebook, stabilire cosa “retwittare”, commentare in modo spontaneo spinti da un’urgenza tale che spesso ci fa dimenticare le regole della sintassi, condividere foto e momenti privati insieme a stati d’animo più o meno positivi. Tutti i comportamenti social più diffusi sono affidati alle nostre emozioni base, quelle che conducono la giovane Riley nel difficile cammino della crescita. E anzi, si può forse azzardare che sia stato proprio questo urgente desiderio di esternare le emozioni in una società perlopiù dedita a plasmare l’immagine pubblica a proprio piacimento e convenienza a decretare il successo dei social network come terreno di scambio, spesso infertile e rissoso, ma di fatto ormai imprescindibile. Come a dire che l’unico spazio in cui sia lecito arrabbiarsi, intristirsi, gioire, avere paura ed esprimere il proprio disgusto sia proprio l’arena virtuale, mentre nel resto delle nostre vite ci preoccupiamo di limare i nostri comportamenti in base a ciò che è considerato socialmente accettabile. Indubbiamente curioso che, in questo senso e non solo, sia recentissima la notizia che Mark Zuckerberg abbia deciso di integrare su Facebook le Reactions, emoticons capaci di trasmettere il proprio stato d’animo con un clic. Oltre al solito like, ci saranno un cuore e cinque faccine con nomi per lo più onomatopeici: haha (divertimento), yay (felicità), wow (stupore), sad (tristezza) e angry (rabbia). Che l’azienda di Zuckerberg si sia ispirata o meno a Inside Out non è dato saperlo, ma ciò che colpisce è che il film Pixar abbia non soltanto rappresentato simbolicamente il presente digitale ma, forse, anche il futuro.
(1) Cfr. Jacques Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 1996.