CINEFORUM / 550

Costretti all’oblio

Milieu, race e moment. Ambiente, razza e momento storico. Sono i tre fattori alla base della realtà umana che gli scrittori del naturalismo francese mescolavano, quasi fossero parametri scientifici, per dare vita a diverse combinazioni e tipologie di personaggi. Come scrive Émile Zola nella prefazione alla seconda edizione di Teresa Raquin: «Ho semplicemente fatto su due corpi vivi il lavoro che i chirurghi fanno sui cadaveri». La formula naturalista del “documento umano” sembra calzare a pennello all’ultimo film di Audiard, Dheepan. Tre cingalesi che non si conoscono arrivano in Francia e si trovano a fare i conti con una lingua diversa e usanze che faticano a comprendere. In varie interviste, Audiard spiega inoltre di avere fatto riferimento alle Lettere persiane di Montesquieu, la pungente satira dei costumi francesi analizzata dal punto di vista di due viaggiatori persiani, stupiti dagli usi e costumi della società occidentale. La verità è che Dheepan è un film scomodo, strano, inclassificabile. Un film che parte in un modo, poi devia in un’altra direzione e conclude dove non ti aspetteresti mai. Anzitutto, Audiard sfugge qui alla normativa dei generi. Il film comincia in Sri Lanka, con uno stile che ammicca al racconto documentario e finisce in una banlieue francese, tra sparatorie, esplosioni e fumogeni degni di un sinistro action movie, oltre che con una dichiarata citazione a Cane di paglia (Straw Dogs,, 1971) di Peckinpah. Una scelta di contaminazioni soppesata e voluta dal regista. Come in un videogioco, la storia viene narrata attraverso una successione di livelli in modo che, a ogni svolta narrativa, cambi anche il registro stilistico. La forma si rinnova, in una sorta di morphing plasmato sull’avvicendamento progressivo dei contenuti. Una compresenza di differenti generi che può convincere o meno, si può discuterne, ma mi pare di una ferocia immeritata il lungo articolo di apertura del numero di settembre dei «Cahiers du cinéma» (1), a firma di Stéphane Delorme che, argomentando come la messa in scena della guerriglia urbana diventi qui una sorta di “atmosfera”, un côté estetizzante deprivato di ogni valenza impegnata, addita Dheepan e altri film affini quale emblema di un vuoto politico nascosto sotto il pretesto del film di genere. Un irriducibile “j’accuse” che, perlomeno nel caso di Audiard, mi pare fuori luogo, dal momento che i suoi film non hanno mai avuto la pretesa di palesare una militanza politica alla Ken Loach. Il saggio di Delorme accorpa film eterogenei adducendo il pretesto di sceneggiatori in comune. E se Dheepan viene accostato al La famiglia Belier (La famille Bélier, 2014) perché uno degli autori del copione, Thomas Bidegain, ha partecipato alla scrittura di entrambi, Delorme non si cura dell’evoluzione dell’autore Audiard e lo biasima duramente persino per una sua breve frase contenuta nel bonus di un dvd di dieci anni orsono (2). Tra tutti i film citati nell’articolo dei «Cahiers», è in particolare Dheepan a diventare l’emblema della strumentalizzazione dei cliché promulgati dal medium televisivo e del cosiddetto marciume del cinema d’Oltralpe (3). Assodato che Audiard non è Loach, questa differenza di weltanschauung non può certo diventare una colpa, semplicemente è un “affare morale”, meglio ancora una questione di poetica. Da sempre Audiard costruisce i suoi film su robuste strutture, su una narrazione corposa e avvincente, ricca di colpi di scena (si pensi a Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os, 2012) (che, pur non essendo tratto da un romanzo ma da una raccolta di racconti, è stato reso sullo schermo come un’unica, solidissima storia). Soprattutto, quando citavo il “documento umano” degli scrittori naturalisti, pensavo all’interesse appassionato di Audiard per i suoi personaggi, costruiti a tutto tondo, con un percorso articolato degno dei migliori romanzi di formazione. Infatti, la chiave di Dheepan risiede proprio sull’affascinante sviluppo dei personaggi dei tre cingalesi, estrapolati dal loro contesto e scaraventati in un mondo nuovo, di cui non parlano e non comprendono la lingua. Principalmente, è rappresentata in modo magnifico la prossimità umana e fisica che si trovano a condividere queste persone sconosciute fino a pochi istanti prima di essere raggruppati sui documenti come una famiglia, semplicemente sulla base di somiglianze fisiche e accorpamenti anagrafici. È forte e denso il tema messo in campo da Audiard. Un argomento di attualità che sollecita nello spettatore riflessioni e interrogativi, tutt’altro che semplicemente un fatto di “atmosfera”. Il regista francese rappresenta la neofita lotta per la vita dei brulicanti migranti scagliati nella società occidentale. Per poter sopravvivere questi individui devono perdersi, devono rinunciare irrimediabilmente al proprio nome e alla propria identità, devono lasciarsi alle spalle le persone amate, devono resettare le proprie origini come un hard disk da riprogrammare ex novo. Accade così alla bambina di nove anni separata dalla zia e dalle cuginette. Ma anche Dheepan, che ha perso la sua famiglia nella guerra, vuole solo andare il più lontano possibile per ricominciare una vita. In un suo pezzo Laurie Anderson scrive: «… quando mio padre è morto è stato come se fosse bruciata un’intera biblioteca». Un pensiero condiviso da molti di noi che è inattuale per questi migranti, perché la nuova vita ha il prezzo della tabula rasa alle loro spalle, la privazione della memoria. Ecco allora il paradosso della contemporaneità: se al cittadino occidentale accade di lottare giuridicamente per poter affermare il proprio diritto all’oblio dal bacino della rete che non dimentica niente, il mondo dei sommersi invece non esiste già in partenza, ed è provvisorio e interscambiabile nei ruoli come gli attori di una soap opera quando vengono sostituiti per interpretare uno stesso personaggio. È un mondo, cioè, dove la vita umana non ha più valore e non ci si può permettere il lusso dei ricordi e dei legami sentimentali spontanei, perché tutte le proprie energie sono impegnate in una difficoltosa e tenace sopravvivenza. Come scrive Marc Augé nel suo bellissimo Casablanca, «in questa operazione non è poco quello che è in gioco, perché perdere il proprio passato vuol dire perdersi di vista: in altri termini, morire» (4). In Dheepan è la bambina ceduta dalla zia in Sri Lanka che ha più chance di integrarsi perché può permettersi di frequentare la scuola per imparare la lingua, e sarà lei a insegnare a Yalini, la donna che figura sui documenti come sua madre, a darle un bacio quando la porta a scuola «come le altre mamme», affinché gli altri non si accorgano della loro recita. Le relazioni sono fittizie, ma siccome l’essere umano è un animale sociale, diceva bene Aristotele, impara ad affezionarsi e a furia di reiterare dei comportamenti per convincere gli altri finisce per crederci. La famiglia messa in scena dai tre cingalesi di Dheepan per persuadere le autorità francesi è come una recita che diventa reale, come quando i due protagonisti dicono che dalla finestra della loro abitazione sembra di essere al cinema a guardare un film, anche se sullo schermo della banlieue scorrono solo immagini di violenza e di sopraffazione. D’altronde, si tratta di una periferia fuorilegge dove le forze dell’ordine non arrivano mai e il guardiano Dheepan gira con il capo chino per non dare nell’occhio fino alla sparatoria conclusiva, il bagno di sangue dove il guerriero che è in lui riemerge come l’istinto primitivo di un animale feroce che riesce a scappare dalla gabbia in cui l’hanno imprigionato. Pronto a ricominciare la guerra per salvare la finta moglie Yalini, pronto a battersi perché a lei non accada quello che è accaduto alla sua vera famiglia in Sri Lanka, animato da un impulso naturale che viene prima del pensiero. Ed è bravo in questa sua istintiva reazione l’attore scelto da Audiard per interpretare Dheepan, Jesuthasan Antonythasan, che ha combattuto davvero con le Tigri Tamil come bambino soldato fino a diciannove anni, prima di emigrare in Francia e diventare autore di romanzi, testi teatrali e saggi politici. Sebbene abbia vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes 2015, Dheepan ha ricevuto molte rimostranze anche per il finale. Audiard è stato accusato di essere un cattivo francese, perché il film finisce in Inghilterra, ma soprattutto la critica non ha apprezzato il lieto fine dei tre cingalesi che diventano una famiglia a tutti gli effetti con l’arrivo di un neonato. Interrogato sulla questione Audiard ha dichiarato che per tutto il film è Dheepan a fare le scelte e a decidere anche della vita della donna e della bambina, così desiderava che il film concludesse nella soggettività del personaggio femminile che anela ad andare in Inghilterra, a formarsi una famiglia e a condurre una vita serena e senza violenza. Però, scappa detto al regista in alcune interviste, si tratta certo di una «felicità piuttosto banale», «da povera gente» (5). A ben leggere tra le righe si tratta quindi di un finale accomodante, ma tutt’altro che lieto, dove ai personaggi è preclusa l’aspirazione a un salto di qualità della loro vita e a una consapevolezza morale e intellettuale. Soprattutto, è interessante soffermarsi sull’ultimo fotogramma del film: il dettaglio della mano di Yalini che si appoggia sui capelli di Dheepan e gli fa una carezza. Un dettaglio insistito e prolungato, con vari posizionamenti di quest’immagine sullo schermo durante i titoli di coda. Un finale identico a un’altra dolente conclusione cinematografica di un film culto: L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni. Che ha un epilogo, in realtà, assai triste. Nell’accettazione di una finta normalità, nella consapevolezza che la protagonista del film di Antonioni ha della fragilità del personaggio maschile, la fine di L’avventura sancisce l’accettazione amara e irriducibile di un compromesso di coppia senza ritorno. È la recita che diventa reale, l’immagine di una felicità fittizia che Dheepan riecheggia nella vacua e patinata normalità di una famiglia da spot pubblicitario.

(1) Stéphane Delorme, La loi de la jungle: Audiard & co, «Cahiers du cinéma» n. 714, settembre 2015. (2) Scrive Delorme: «Audiard dice per esempio nel bonus del dvd Tutti i battiti del mio cuore: “Un personaggio appartiene a un ambiente (milieu) che appartiene a un genere”. Tutto è falso in questa frase. Un personaggio giustamente sfugge sempre a un ambiente (milieu), se no non è che uno stereotipo, e un film per stare in piedi sfugge necessariamente al servilismo al genere». (3) Citiamo qua e là: «Dheepan è il perfetto risultato, cosciente o meno, della bfmizzazione dei cervelli» (bfm è una catena televisiva francese); «Dheepan è al centro di una piccola costellazione che sta per incancrenire il cinema francese». (4) Marc Augé, Casablanca, Bollati Boringhieri, Torino 2008. (5) Léonard Hadad (a cura di), Retour de Palme, «Première» n. 461-462, luglio-agosto 2015; Philippe Rouyer, Yann Tobin (a cura di), Entretien avec Jacques Audiard. À la hauteur des personagges, pas plus haut, «Positif» n. 655, settembre 2015.