Quale cornice di Francofonia, Aleksandr Sokurov ha immaginato una finzione letteraria e romanzesca d’altri tempi. Squisitamente letterario è infatti l’intervento dell’autore nell’incipit e nel corso del film, come narratore onnisciente mostrato di spalle, nella penombra del proprio studio-laboratorio, fra i libri, i quadri e le carte. È lui a introdurre la narrazione e i personaggi ed è dalla sua voce che dipendono le dinamiche di un racconto collocato in una prospettiva aleatoria dallo stesso Sokurov, che confessa subito la propria insoddisfazione verso il film che stiamo vedendo (in eco alle dichiarazioni sul cinema in generale, che dichiara di non amare…). Il primo racconto viene introdotto nel film indirettamente, attraverso le immagini intermittenti sullo schermo del computer domestico dell’autore, collegato via Skype a un personaggio immaginario, Dirk, il capitano di una grande nave che sta trasportando beni artistici inestimabili. Intermittenti perché la nave è finita nel maelstrom di una tempesta e la violenza delle acque, da un momento all’altro, potrebbe provocare un naufragio, o quantomeno la perdita delle opere. Dalla distanza della sua casa tranquilla dove nulla lo minaccia, Sokurov assiste quindi a una situazione drammatica che sta avvenendo altrove. Questo è il preambolo romanzesco che introduce la prima contaminazione fra epoche diverse, ricorrente nel movimento divagatorio del film. Ma, appunto, la tempesta è visualizzata nello schermo di un pc ed è proprio questa percezione mediata dai mezzi odierni a renderla vivida e credibile, anche se non lo è. Il romanzo fittizio di una nave carica di opere d’arte che rischia di inabissarsi è, in realtà, l’eco di un episodio effettivamente avvenuto nel passato, evocato nel film, e precisamente un’imbarcazione del Diciannovesimo secolo partita da Bassora in direzione di Marsiglia, per condurre al museo francese le sculture dei grandi leoni siriani. Sokurov ha voluto ricordare questo episodio perché diviene un’allusione a orrori recenti, le distruzioni vandaliche perpetrate dall’is. «Le forze della storia somigliano alle forze dell’oceano», sussurra Sokurov, dove l’oceano è l’immagine romantica di una dimensione irrazionale che sovrasta l’uomo, un’immagine da incubo («Non amo l’oceano. Mi sono ritrovato molto volte in mezzo alle tempeste a bordo di navi militari, e mi fa molta paura») (1). Questo romanzo ha l’effetto di instaurare una minacciosa inquietudine che diviene la tonalità dell’intero film. L’immagine delle opere d’arte impacchettate sulla prua ed esposte pericolosamente alle ondate, proprio perché sembra provenire dal passato di una narrazione romanzesca, diviene il prologo ideale a un viaggio nel tempio dell’arte e della conservazione dei beni artistici. È ancora, dopo quello compiuto nell’Hermitage di Arca russa (Russkij Kovceg, 2002), un viaggio nella storia e nella memoria racchiuse negli spazi di uno dei più grandi musei del mondo, il Louvre. Ma, appunto, non è un viaggio pacificato: è pregiudicato dall’angoscia che deriva all’autore dalla vulnerabilità delle opere d’arte che, come gli abitanti di un Paese conquistato, sono esposte agli abusi dei vincitori e da un’angoscia ulteriore: che la distruzione, la cancellazione del passato sia oggi un fenomeno tacitamente ammesso – almeno in quanto accolto da una sostanziale indifferenza – dalle autorità che governano un mondo, secondo Sokurov, sempre più abbandonato all’oblio. Il vincitore e il vinto Sokurov si domanda: «Come il Louvre ha potuto sopravvivere al corso della storia? Quale è stato il prezzo di questa sopravvivenza?», ossia come abbia potuto sopravvivere al periodo di maggior pericolo per la propria identità mai sofferto nella sua storia. Il cineasta disseppellisce una storia dimenticata e, secondo lui, non adeguatamente indagata: la dialettica fra il vincitore, il conte tedesco Franz-Wolff Metternich, ufficiale responsabile della Kunstschutz (commissione tedesca per la protezione delle opere d’arte nella Francia occupata) e il vinto, il direttore del Louvre, Jacques Jaujard. In realtà la Kunstschutz dissimulava la vasta attività di saccheggio organizzato dai nazisti nell’Europa occupata ed è appunto la reale natura criminale di tale istituzione a sollevare molti interrogativi su quali dinamiche avrebbero evitato al grande museo parigino di subìre la stessa sorte dell’Hermitage. Sokurov ricorda anche il massacro di tre milioni di russi durante i primi mesi dell’assedio di Leningrado e ritiene che il maresciallo Pétain sia stato l’artefice di un compromesso tutto sommato accettabile perché ha risparmiato molte vittime. Ma trascura di ricordare le deportazioni degli ebrei compiute con la piena complicità, anche ideologica, da parte del regime di Vichy, correo dello sterminio. Le segrete stanze in cui dialogarono Metternich e Jaujard diventano quindi il teatro di un enigma non soltanto storico ma emblematico, intorno al quale Sokurov ha creato (soprattutto in postproduzione) un film stupendamente impuro: saggio storico (ha esaminato personalmente gli archivi di Metternich e ha cercato inutilmente di ritrovare quelli di Jaujard) e fantasmagoria poetica, con punte derisorie (il magnifico “doppiaggio” di una sequenza muta di Hitler a Parigi) e grottesche (si pensi ai “fantasmi” di Napoleone, ridotto a un burattino megalomane e addirittura della Marianne allegorica, che percorre le sale del museo come un’isterica, dato che Sokurov odia la Rivoluzione francese, ritenendola arbitrariamente madre delle stragi di stato a venire, in primis quelle dello stalinismo). Con dolorosa ironia, ricorda che il Novecento si era aperto con due lutti forieri di orrendi presagi – le morti di Tolstoj e Cechov – che, ritornando nel passato, cerca di svegliare dal loro sonno. Adotta gli stessi stilemi delle sue Elegie – la voce over, le sequenze dalla definizione e dai formati diversi, l’uso della steadycam, le sovrimpressioni, la manipolazione dei filmati d’archivio, le discontinuità e i cortocircuiti temporali, il respiro divagatorio – per sfruttare la natura onirica e soggettiva del cinema e quindi coinvolgere lo spettatore in un gioco fantasmagorico dove il Louvre diviene il sacrario stesso dell’identità culturale europea durante la tempesta più tragica della sua storia. In questa fantasmagoria campeggiano le due figure di Metternich e Jaujard: se il francese ha giocato con suprema abilità le carte della diplomazia, ha avuto la fortuna di avere un interlocutore la cui sensibilità inaspettatamente ricorda quella di von Ebrennac, l’ufficiale tedesco di Il silenzio del mare (Le silence de la mer, romanzo di Vercors, 1942, e film di Melville, 1947), un conoscitore ed estimatore d’arte pronto a rischiare di persona pur di salvare uno dei musei più importanti del mondo. Sokurov mostra questi due uomini, che dovrebbero essere contrapposti, come eroi da romanzo, due incarnazioni di un umanesimo che egli contempla con la malinconia di un conservatore (per non dire un reazionario) persuaso che quei valori, quella concezione della cultura oggi siano estinti. Lo dimostrerebbe, secondo lui, per esempio, il saccheggio del museo di Bagdad cui l’esercito statunitense e l’onu hanno assistito senza intervenire. Anche se si può non condividere la visione di Sokurov, la malinconia di chi non si riconosce più nella cultura della sua epoca, conferisce al film un’intensità che trova un’eco negli eventi narrati alla fine, quando apprendiamo che, negli anni Sessanta, Jaujard ha dovuto apprendere dai giornali che era stato dimesso dalle sue funzioni e da quel momento è uscito di scena senza lasciare tracce. Non rimane nessun documento significativo negli archivi del Louvre, o almeno Sokurov non è riuscito a trovarne e non gli hanno consentito l’accesso ai locali del suo ufficio. Per un crudele paradosso, è stato abbandonato all’oblio proprio un benemerito custode della memoria.
(1) Le cinéma est un couteau rouillé. Entretien avec Alexandre Sokurov, a cura di Cyril Béghin e Jean-Philippe Tessé, «Cahiers du Cinéma» n. 716, novembre 2015, pag. 27.