L’arte di narrare non è mai separata da quella di saper dare forma e sviluppo a linee di tensione capaci di portare i personaggi a dare fondo alle proprie risorse (di sopravvivenza e/o di cambiamento), verificandone in tal modo il senso del loro essere-al-mondo. In gioco, alla fine, c’è sempre l’alternativa tra adeguatezza e inadeguatezza, che sta alla base del conflitto inesauribile tra il singolo individuo e il contesto costituito dall’insieme della realtà animata e inanimata in cui, per caso o per scelta, si trova a vivere. Inevitabilmente questo vale anche per il cinema, quando questo sceglie di essere racconto. È piuttosto interessante notare come tra i film di cui «Cineforum» si occupa in questo numero molti siano quelli che narrano di un conflitto aperto (e presentato quasi come una condizione ontologica) tra l’attitudine di un soggetto, considerato in quanto tale come isolato, ad una rappresentazione intellettuale – critica, poetica, politica, antagonistica – del mondo e il mondo com’è, per così dire.
Il terreno in cui si consuma lo scontro che ne deriva varia di volta in volta. Dal microcosmo familiare ipersensibile e iperreattivo sollecitato come di consueto nel film di Dolan, ci si allarga alla microcomunità inquietante e pericolosa che accoglie il suo cittadino illustre, per giungere a un quadro sociopolitico ben più complesso come quello messo in scena in Aquarius fra interessi speculativi e pretestuosa dialettica passato/presente. In Paterson un io poetico maschile deve fare i conti con il soggetto desiderante femminile che completa la coppia, con il mondo-Paterson in una formulazione che è al tempo stesso sincronica e diacronica, e con la presenza enigmatica di un certo Marvin: una rete di relazioni dalle quali la tensione non è mai assente, sia pure filtrata da un’ironica cedevolezza zen. Ben più drammatica è la condizione di conflitto in cui sono immersi i protagonisti del film di Asghar Farhadi, lacerati tra una dimensione intellettuale ed etica conquistata non certo senza fatica e la brutale irruzione del reale che quella conquista rischia di annullare. In un quadro culturale, sociale e familiare completamente differente, assisitiamo al presentarsi di un nodo in fondo non dissimile quando Captain Fantastic è costretto a interrogarsi sulla liceità delle posizioni antagonistiche a cui ha condotto (insieme alla sua amata compagna) i suoi figli.
A fronte di tutti questi film in cui la condizione di intellettuale del singolo è sempre portatrice di un’istanza di diversità attraverso il linguaggio (quindi la rappresentazione), Clint Eastwood con il suo Sully gioca, tanto per cambiare, il ruolo del rompiscatole, mostrandoci un soggetto, che ha dimostrato il suo saper fare proprio nel confronto diretto con gli eventi, alle prese con un apparato che di una realtà parallela, fatta di immagini, azioni e reazioni ricostruite e programmate attraverso un’operazione affatto intellettuale, ha fatto il suo unico oggetto di fede. Ma – lo sappiamo – sempre strano è il cammino che Eastwood preferisce compiere per giungere all’Uomo.