Sully è, in un certo senso, un film di guerra travestito. Non certo per timore o per volontà di ingarbugliare il racconto o, peggio, di inguaiare lo spettatore (quando mai a Eastwood, cultore della chiarezza cinematografica, potrebbe interessare questo punto di vista), quanto piuttosto per grande senso della contemporaneità. Sully è non solo un film che mette in scena il conflitto (quello del dubbio contro la verità, della certezza contro la responsabilità, della soggettività contro l’oggettività, dell’esperienza umana contro la sovra-umanità tecnologica, del virtuale contro il reale) ma anche, e soprattutto, un film che attraverso queste opposizioni chiama in causa molte questioni centrali proprio rispetto alla rappresentazione della guerra stessa nel dopo 11 settembre. Si può anche – se può avere un senso – reiterare il vecchio adagio che vuole Eastwood l'ultimo grande regista classico, ma a condizione che per classico non si intenda uno che si ripete, che applica una formula sempre uguale a se stessa, che si trincera nella confort zone di un cinema fatto di meccanismi ultrarodati. Clint Eastwood si dimostra infatti, e più che mai con Sully, l'esatto contrario di questo luogo comune.
«Callahan is the one constant in an ever changing universe», diceva Mr. Threlkis (Michael V. Gazzo) all'imperturbabile dirty Harry che aveva fatto irruzione al banchetto di matrimonio della nipote del criminale guardandolo fisso negli occhi in Coraggio… fatti ammazzare (Sudden Impact, 1983); ma Clint Eastwood, checché se ne dica e nonostante le note e discusse dichiarazioni pro Trump, non è Callahan. Certo è uno che, da sempre, mette al centro del suo cinema l'individuo e le sue certezze ma ponendolo di fronte alle proprie responsabilità come lui si prende la responsabilità del cinema che fa. Inoltre sono proprio queste stesse certezze che molto spesso mettono in crisi l’uomo eastwoodiano, come in Sully appunto. E anche se forse è proprio questo ciò che può contribuire a liquidare Sully come quella che un tempo si sarebbe detta "un'americanata”, una definizione di questo tipo è troppo limitata, oltre che di una superficialità inadeguata.
Innanzitutto perché Eastwood ha il coraggio, a ottant'anni suonati, di prendere il suo cinema per le corna e di scarnificarlo, di ridurlo all'essenziale. Uno che da anni non faceva un film sotto le due ore, condensa qui una vicenda epica, eroica, unica, cruciale (per l’immaginario ancora più e ancor prima che per la Storia) in un'ora e trentasei minuti di cinema da grande, grandissimo, autore. Davanti a Sully si prova una sensazione strana, come di una commozione leggera, sussurrata, continua, che dura per tutta l'ora e trentasei minuti senza mollare mai, anche se si sta a guardare una storia di cui si sa tutto, soprattutto come andrà a finire. Quello che Eastwood sembra fare in questo film è attuare una specie di estrema, quasi dolente (nonostante il lieto fine), sublimazione del suo stesso cinema, concentrandone la tensione, raffinandone al massimo la precisione (basta pensare al modo in cui costruisce l'andirivieni del racconto lungo l'arco temporale e attraverso le visioni, gli incubi, le apparizioni vissute dallo stesso Sully).
E poi, e sarebbe più che sufficiente a renderlo un film non solo molto più complesso di una banale “americanata” ma straordinariamente interessante nel panorama del cinema contemporaneo americano soprattutto di guerra, c’è la rappresentazione della vicenda che ha contribuito al “risollevamento” dell’immaginario degli Stati Uniti dal buco nero del post 11 settembre. Il miracolo dell’Hudson raccontato da Eastwood non è solo moralmente una sorta di risarcimento della più grande ferita mai inferta al Paese al proprio interno («It’s been a while since New York had news this good… Especially with an airplane in it», dice il collega della United Airlines la sera in albergo quando ormai si è costretti a credere all’incredibile) ma diventa la costruzione visiva di quel risarcimento nel momento stesso del suo attuarsi. D’altra parte, come scrivono Barbara Grespi e Luca Malavasi, «la storia dell’11 settembre, cominciata nell’immagine, ha avuto una conclusione visiva sicuramente insoddisfacente, per nulla adeguata non soltanto al suo prologo ma anche, piu? in generale, alle richieste della medialita? contemporanea» (1).
A questa insoddisfazione pare voler rispondere Eastwood. Del miracolo dell’Hudson ci sono tantissime immagini dei soccorsi, della carlinga dell’aereo appoggiato sulle acque del fiume, ma nell’immaginario condiviso servono immagini del reificarsi del riscatto e sono quelle che Eastwood fabbrica. Si pensi anche solo (senza contare l’esplicita battuta citata) alla brevissima ma cruciale sequenza in cui nel silenzio assoluto dall’interno delle case, degli uffici, le persone osservano incredule l’aereo che passa di fronte alle loro finestre, tagliando il cielo della città, sfiorando i grattacieli proprio come in un nuovo 9/11 ma di segno inverso. Eastwood crea con Sully quell’“immagine mancante” provando a colmare il vuoto di quel risarcimento visivo. D’altra parte, scrivono sempre Grespi e Malavasi «Eastwood inizia la propria riflessione sulle guerre contemporanee raccontando esplicitamente la storia di un’immagine: la fotografia della bandiera americana issata nel 1945 sul suolo di Iwo Jima (Flags of Our Fathers, id., 2006), attraverso la quale egli riconnette al presente l’ultima guerra giusta. Anche per Eastwood, non certo un antimilitarista, il processo attraverso cui il cinema traduce il documento in racconto non puo? prescindere, oggi, da una discussione del ruolo politico delle immagini». E quel discorso lo continua qui, dopo American Sniper (id., 2014) naturalmente, proprio in Sully.
Quali possono essere considerati del resto i confini dei teatri di guerra nella contemporaneità del conflitto globalizzato? Non solo in riferimento alle azioni (è ovvio quanto, a partire proprio da 9/11 fino ai più recenti atti terroristici sia cambiata la fisionomia del campo di battaglia, della percezione del pericolo, della minaccia, dell’invasione) ma anche – e forse soprattutto – in relazione al ruolo delle immagini. Il capitano Sully, da buon eroe classico, si ritrova in guerra suo malgrado, semplicemente per aver fatto il suo dovere, «His job» avrebbe detto uno come John Ford, ma siccome fare il proprio dovere non è sempre così scontato, o così facile, o così senza rischi (anche se non fai il cecchino nei Marines ma il pilota di linea), un uomo integerrimo e serio e professionale come il capitano Sully può trovarsi in mezzo a una guerra che è mediale e mediatica ancora prima che personale. Un conflitto che è fatto soprattutto di immagini; quelle che si impossessano delle visioni e dei sogni del capitano, quelle che sono trasmesse continuamente dagli onnipresenti schermi con i notiziari, ma soprattutto quelle mandate in streaming durante il processo finale in diretta dai simulatori di volo. Immagini che costringono gli attori dell’evento a guardare una versione virtuale della loro esperienza attraverso un dispositivo di rappresentazione, per altro largamente utilizzato proprio nel contesto bellico (si pensi a questo proposito a un film come Serious Games [2009-2010] di Harun Farocki, autore al quale è stato dedicato non solo un omaggio all’ultimo Torino Film Festival ma anche un importante convegno internazionale di studi dal significativo titolo “Pensare con gli occhi”).
Ma basta la rappresentazione, in pace come in guerra, a far accadere realmente ciò che si rappresenta? Le immagini ri-prodotte sono attori stessi della realtà? Queste immagini ri-mediate possono essere considerate delle prove tanto più significative proprio in virtù della loro disumanizzazione? Siamo definitivamente giunti a quel declino dell’esperienza sul quale già si interrogava Walter Benjamin? Non è tanto un’ipotetica prevedibile risposta di Eastwood a questi quesiti che ci interessa quanto il fatto che, americanata o meno, il suo cinema “classico” fatto di eroi tradizionali (lo è il capitano Sullenberg come lo era d’altronde anche il cecchino Chris Kyle) continua a dimostrare, proprio per le questioni che solleva, un grande grandissimo senso della contemporaneità.
(1) Barbara Grespi, Luca Malavasi, Dal war movie al soldier movie. Il cinema americano contemporaneo e il ruolo delle immagini di guerra, «Acoma» n. 11 Nuova Serie, Autunno 2016 – Anno XXIII, pagg. 80-103.