Diciassette è la metà di trentacinque, cifra più, cifra meno. È con questa lucida e vagamente straziante consapevolezza che una trentacinquenne si accinge a scrivere di un film sui diciassettenni, sulle loro turbe psichiche e sui loro farraginosi perché, certa del fatto che l’arrivo anagrafico dell’età della ragione non comporti necessariamente una svolta in termini di chiarezza esistenziale, nemmeno quando l’età della ragione è stata sorpassata in abbondanza. In assenza di risposte, meglio porsi una domanda: chi è il peggior nemico di ogni adolescente? Se stesso. Nello specifico la protagonista, Nadine, si crede vittima di un orrendo complotto ai suoi danni: la migliore amica l’abbandona in favore delle gioie del sesso, la madre non la capisce, gli insegnanti men che meno. Questa la sua percezione, la realtà ovviamente è tutt’altra: Nadine è solo prigioniera della sua età, dei suoi ormoni e della convinzione errata che l’unica a essere sola al mondo, a dover contare sulle proprie forze e scrollarsi di dosso i malaugurati pesi della vita, sia lei.
Un adolescente, del resto, non vede giustamente null’altro al di fuori del proprio ombelico, e in questo Hailee Steinfeld è bravissima a rendere l’idea del tremendo disagio dei teenager, sballottati fra la faticosa affermazione del proprio io e la ricerca forsennata di un posto nel mondo, uno qualunque, purché ci si riesca a scrollare di dosso quella sensazione limacciosa di sconfitta che sfocia in una rabbia cieca, accanita. La parte dell’insopportabile rompipalle le calza a pennello; niente grida “adolescenza” quanto un bel broncio, cinquanta chili di bellezza un po’ goffa e una cameretta in perenne stato di calamità naturale. E non scordiamoci del campo di battaglia: la scuola, teatro di grandezze e miserie della giovane età, luogo di rappresaglie fra coetanei e barricate per difendersi dagli adulti, i malaugurati membri del corpo insegnante.
Il preferito di Nadine, Mr. Bruner – un Woody Harrelson sempre in formissima – è quello che la tratta da pari, non le fa sconti e non ha paura di sentir uscire cattiverie inenarrabili da quell’adorabile boccuccia di rosa non ancora allenata all’arte dell’adulazione, né verbale, né fisica. Nadine, con l’aiuto di Mr. Bruner e del suo senno, capirà che la realtà non è (ancora) la selva selvaggia in cui le sembra di pascolare, ma un gigantesco trampolino dal quale proiettarsi verso nuove costellazioni. La scuola e il rapporto con gli insegnanti, del resto, sono un ottimo terreno di coltura per l’esplorazione dei drammi adolescenziali: i teen movies, e gli high school movies in particolare, da decenni ci regalano uno scorcio sulle terrificanti parabole dell’età inquieta, da Breakfast Club a Clueless passando persino per American Pie attraverso vari gradi di sensibilità e approssimazione ma sempre, immancabilmente votati alla ricerca di un sollievo per le giovani menti troppo affaccendate.
In Edge of Seventeen non troverete quarterback mascelloni, cheerleader starnazzanti e gli immancabili nerd a cui rompere gli occhiali: Nadine e i suoi comprimari assomigliano a se stessi, assomigliano a voi, ai miei amici, a me quando avevo la loro età. È una cosa affascinante e dolorosa: vorresti dir loro di non tormentarsi, di godersi quegli anni di tumulto, prima che tutto finisca soverchiato dalla stasi della maturità e del senno di poi, quello stesso mostro orrendo che mi spinge a giudicare un film dalla bontà dei suoi dettagli e non dalla semplice gioia scomposta che mi ha attraversata come una scossa elettrica sui titoli di coda. Crescere è una bella cosa ma è anche un po’ brutta, a ben guardare.