Un’operazione a cuore aperto, secca, precisa, razionale. Con questa (vera) immagine il film di Yorgos Lanthimos si apre e ciò è quanto, alla fine, esso realmente appare. La vicenda che vi si racconta – lo sveliamo subito – è una celata versione dell’Ifigenia in Aulide, tragedia euripidea tra le più note del patrimonio greco classico, nella quale al re Agamennone, per avere questi offeso Artemide, dea della caccia, è comandato di sacrificare la propria figlia primogenita; solo in questo modo torneranno a spirare i venti grazie ai quali le navi degli Achei potranno finalmente raggiungere Troia, dove infuria la guerra. Per tale ritorno al dramma antico, il regista – pure sceneggiatore con il fido Efthymis Filippou – sceglie come interpreti divi internazionali costringendoli in interpretazioni asciuttissime, facendone maschere, quali il testo originario richiederebbe.
Questa libera trasposizione vede al centro il dottor Steven Murphy (Colin Farrell), un cardiochirurgo che ha fatto carriera, la famiglia del quale – composta da moglie e due figli, di cui la più grande appena adolescente – si ritrova improvvisamente minacciata dal giovane Martin, un Barry Kheogan tanto semplice e lineare, quanto impenetrabile e inquietante. Il fascino della prima parte del film ruota tutta sul cercare di capire quale legame unisca questi al medico, che gli fa regali importanti e lo tratta quasi come fosse un figlio, ma di cui a casa nessuno sa niente. Martin, invece, un padre proprio non ce l’ha, il suo è morto sotto i ferri di Murphy, e ora vive modestamente solo con la madre, che in un primo momento dichiara di non disdegnare vedere accoppiata al chirurgo e definisce con molto calore “un’amica” (ricordando in questo, forse non del tutto casualmente, il caro vecchio Norman Bates). Il suo agire sembra essere dettato da una voglia di vendetta nei riguardi del cardiochirurgo, ma in realtà, dietro, c’è qualcosa di più sottile, ovverosia, per l’appunto, la necessità di un sacrificio, e ciò rivela la vera natura del personaggio.
Martin, apparentemente un lucido folle, esige dal medico la morte di uno a propria scelta tra i suoi cari per bilanciare il peccato di superbia di aver voluto operare in quel giorno malaugurato che fu dopo aver assunto alcool, commettendo l’errore fatale. L’allucinante richiesta è fatta per il semplice motivo che il giovane può farla, ne ha il potere. Lui, che sembra un ragazzo qualunque, come tanti altri, in realtà pare possedere facoltà che lo rendono un autentico dio. Come può, infatti, predire e far sì che i figli di Murphy smettano improvvisamente di camminare e mangiare, per poi, infine, iniziare a sanguinare dagli occhi in un preludio di morte? Anche tutta la medicina del chirurgo e del mondo scientifico che lo circonda e che rappresenta non se lo sa spiegare. L’unica che arriva in qualche modo a intuire questa verità è sua moglie, interpretata da Nicole Kidman, nel momento in cui, dopo averlo fatto prigioniero in casa, bacia i piedi del ragazzo riconoscendone in questo modo la potenza e implorandone la pietà.
Il collegamento con la tragedia classica di Euripide è esplicitato nel momento in cui Murphy va a scuola a informarsi sull’andamento dei suoi figli e gli viene detto che Kim, la maggiore, ha recentemente avuto buoni voti su un test proprio su Ifigenia. Tuttavia, rispetto a quanto poteva accadere nell’antica Grecia, qui il dio non ha per i piccoli uomini la pietà di Artemide – che in ultimo sostituì la figlia del re con un cervo – e fino a che non si compie il sacrificio la sua azione prosegue ineluttabile. Del resto, è davvero una società diversa, questa contemporanea, dove chi è messo alla prova – e ciò vale per l’intera famiglia Murphy – non si dimostra depositario di alcuna virtù, piuttosto di ottusità, assenza di empatia e di umiltà. In questa, l’interrelazione (di qualsiasi tipo essa sia) assume essenzialmente la forma di una vuota performance. Allora, per esempio, pure il fare l’amore e il sesso tout court diventano momenti attoriali, il fingersi qualcun altro (come fa la Kidman quando si trasforma in una paziente anestetizzata per il desiderio del marito), o l’eseguire un gesto meccanico (quale una masturbazione, per quello che è, alla fine, un semplice bisogno fisiologico), o anche il fare del proprio corpo un oggetto da esibire, persino per occhi che non lasciano intendere alcun sentimento, né passionalità (come fa Kim con Martin).
Tuttavia, questa visione dell’umanità, svuotata e alquanto arida, fisica indubbiamente, ma priva di anima, Lanthimos la propone da sempre nel suo cinema, non è esclusiva di Il sacrificio del cervo sacro. Lo stile nel descriverla, però, si è venuto facendo sempre più consapevole e, se vogliamo, persino accattivante. Qui, esso sembra addirittura assumere un’esplicita intenzionalità narrativa, ovverosia riprodurre il modo di guardare le cose di Murphy. La macchina da presa di Lanthimos diventa come l’occhio di un medico specialista dotato di lenti ingrandenti alle prese con un’operazione di microchirurgia che, facendo un esorbitante uso di grandangoli e di zoom, con freddezza e meccanicità, si avvicina alle situazioni e ai personaggi per metterli su di un vetrino, studiarli, analizzarne comportamenti e reazioni, per penetrare nelle diverse situazioni in cui essi sono portarti a muoversi e cogliere aspetti profondi e non immediatamente evidenti della loro realtà. In tal senso, va messo in risalto il lavoro sulla fotografia davvero notevole compiuto da un altro consueto collaboratore del regista, Thimios Bakatakis, che sfrutta con maestria lampade e luci di scena per far percepire allo spettatore la profondità degli ambienti e definire nella maniera più compiuta la corporeità dei personaggi che si muovono in essi.
Tale modo di filmare, di riprendere luoghi e persone calate in specifici contesti, può nascondere sorprese ed elicitare aspettative in merito, ad esempio, a cosa possa emergere o succedere alla fine di uno zoom o di un movimento di macchina, e questo ben appartiene al genere in cui l’opera vuole collocarsi, ovverosia il thriller. È evidente che nella regia di Lanthimos davvero niente è lasciato al caso, e ciò ci porta a scomodare ancora una volta, ma solo per un breve attimo, il fantasma di Alfred Hitchcock, con le sue sequenze studiate a tavolino e una concezione del cinema come sviluppo di una architettura narrativa perfetta attraverso la quale portare lo spettatore verso qualsiasi punto si voglia. Il gioco dell’autore greco, invece, all’inizio interessante, si fa poi ridondante, e in ultimo abbastanza fine a se stesso, perché nessun momento appare realmente finalizzato a trasmettere qualcosa di compiuto e definito. La camera si relaziona ai personaggi nel medesimo modo in cui essi fanno con la realtà che li circonda; come le stesse sonorità che accompagnano le immagini, acute e atonali, che non producono alcuna melodia; come il film stesso, in cui ogni cosa è interpretabile, piuttosto che realmente comprensibile, e tutto procede per suggestioni, mai per affermazioni. Prova ne sono i diversi buchi che la storia presenta: ad esempio, perché alla fine di tutto, con quanto di drammatico succede, la polizia non interviene? Come fanno i Murphy – o quel che è rimasto di loro – a mangiare insieme rasserenati e compatti?
Tali critiche si possono fare a buona parte della filmografia di Lanthimos, che alla fine, proprio per ciò, è divenuto un autore da molti definito – non con poca ambiguità – come tipicamente “europeo” o, più esplicitamente, “festivaliero” (questa sceneggiatura è stata premiata a Cannes). Resta, però, il fatto che Il sacrificio del cervo sacro, pur con i suoi momenti sfuggenti e criptici, per tutto quello che abbiamo detto, sia un film di certo fascino, come un’operazione al cuore eseguita da qualcuno che cuore non mostra.