Lucky lo si può definire tranquillamente un film d’attore. Sia perché esso è incentrato su di un unico personaggio (quello che porta il soprannome del titolo, interpretato da un davvero vecchio Harry Dean Stanton), sia perché dalla recitazione viene il suo regista. John Carroll Lynch, infatti, è un interprete di lungo corso, che ha dato negli anni buona prova di sé e qui esordisce dietro la macchina da presa. Anche Drago Sumonja e Logan Sparks, produttori del film attivi da tempo nel mondo del cinema, fanno una cosa per la prima volta: scrivono una sceneggiatura. Questo preambolo ci pare necessario per cercare di capire compiutamente i punti di forza e le opposte debolezze dell’opera, che nasce da un forte gusto cinefilo e a un pubblico cinefilo senza mezzi termini si rivolge. Già l’acuta scelta della figura protagonista parla da sé. Stanton, infatti, è un attore eccellente con sessant’anni di carriera sulle spalle, esplosa nel – e sempre di più caratterizzata dal – cosiddetto “cinema d’autore”, in particolare quello di David Lynch, a lungo frequentato. Non è un caso, allora, che proprio Lynch (che non ha parentela col regista del film) sia stato invitato a recitare un ruolo importante, dando senso pieno al concetto di “apparizione speciale”. Un’altra presenza che fa molto piacere agli estimatori della settima arte americana è quella di un Tom Skerritt oramai imbiancato, assieme al quale Stanton aveva volato a bordo della Nostromo nell’Alien di Ridley Scott, nel ruolo, ora, di un vecchio reduce della Seconda guerra mondiale. Ma anche lo stesso paesaggio che fa da sfondo all’azione, con la sua desolazione e asprezza, trasuda certa cinefilia facendo pensare a Paris, Texas di Wenders, che offrì al nostro protagonista proprio il ruolo che lo ha consacrato. A questo punto la domanda inizia a sorgere spontanea: siamo di fronte a un’opera studiata e pianificata a tavolino per un pubblico ben specifico o all’ultimo amorevole valzer – il definitivo – fatto suonare per far finalmente assurgere una figura iconica, ma sempre defilata, a protagonista unico?
A far pensare a questa seconda possibilità e a dare al film un’aura speciale contribuisce sicuramente il fatto che Stanton se ne sia andato a novantun anni, pochi giorni prima dell’uscita ufficiale del film nei cinema statunitensi. Inoltre, leggendo da più parti, scopriamo che molti riferimenti che il personaggio fa in merito al suo passato combaciano con la vita dell’attore. Valga per tutti il più importante, quello alla base del soprannome “Lucky”, ovvero l’aver fortunatamente svolto nella guerra nel Pacifico il ruolo di semplice cuoco di Marina evitando di guardare in faccia gli orrori che, invece, ricorda Skerritt. Allora, anche l’intero nocciolo del film, ovverosia la continua riflessione sul morire che il protagonista si ritrova a compiere, può essere condiviso con curiosità. Cosa pensa il vero attore-autore Stanton dello scomparire e di questo farsi filmare sul limite della soglia? Quanto c’è di vero nel racconto? Ritorna alla mente un altro film di Wim Wenders, Lampi sull’acqua, che poté concludersi solo con la morte dello stesso soggetto ripreso in lotta con il cancro, cioè il regista Nicholas Ray.
Alla domanda su quale realismo sia alla base dell’opera (e realismo è proprio una parola su cui Lucky, a un certo punto, si sofferma a riflettere spiegandone compiutamente il significato agli spettatori) è difficile trovare una risposta, perché a volte il film segue percorsi diametralmente opposti a esso. Basti pensare al gran numero di simboli – a volte molto ragionati, ai quali non sempre si arriva a dare spiegazione, altre piuttosto convenzionali – di cui esso fa sfoggio. Ad esempio, i grilli vivi – cibo per rettili visti al negozio di animali – che vediamo liberi alla finestra mentre lui dorme, che senso hanno? Inoltre, sono un sogno? Il giardino di Eve chiuso, davanti al quale regolarmente il nostro si arrabbia e che è l’unico luogo verde della zona, rappresenta il Paradiso da cui lui è ancora tenuto fuori? E il latte bevuto regolarmente di giorno e il Bloody Mary di sera? Proprio tanti sono i momenti in cui il ragionamento ha la meglio sul realismo e su ogni emozione creando un certo distacco con la storia, e ciò vale anche per il modo in cui è affrontato il tema del morire. Infatti, se è divertente il confronto tra Lucky e il suo medico costretto a constatare che, nonostante l’età e il fumare incessante, il vecchio non ha niente che non va, è pure vero che da ogni dove arrivano segnali che sottolineano quanto si stia facendo stringente nel protagonista la paura di scomparire: il ricordo che ritorna del tordo colpito da bambino che lo ha lasciato in un silenzio angosciante; il sogno nel locale che frequenta di sera dal quale esce seguendo una luce rossa; la riflessione di David Lynch sulla propria testuggine che è scappata di casa (e che abbiamo visto allontanarsi proprio a inizio di film) descritta come un animale che si porta sempre addosso la propria bara, perché in essa morirà; il racconto di guerra di Skerritt e di quando si è ritrovato nel Pacifico circondato da gente che, in preda alla paura e alla disperazione, ha preferito buttarsi in mare piuttosto che fronteggiare l’esercito statunitense, con l’eccezione di una bambina buddista rimasta a sorridere davanti al proprio implacabile destino. Si potrebbe continuare ancora prima di arrivare al momento in cui Lucky – che vive solo, mai sposato e senza figli – ammette esplicitamente la propria paura a un’amica che è venuta a trovarlo, ma per lo spettatore è già tutto chiaro.
In alcuni punti questo senso di angoscia risulta particolarmente percepibile ed evidente, come ad esempio quando il nostro si trova, di notte, a letto e in colonna sonora Johnny Cash canta di quando ha cominciato a vedere oscurità tutto intorno a lui. E questo è proprio ciò che Lucky teme la morte possa essere: solamente vuoto e oscurità. La fine della vita, ma anche di un mondo e di un tempo precisi. La fine di tutto. In tal senso, congruente è la scelta di John Carroll Lynch di adottare uno stile neowestern quale già fu Paris, Texas. Si vede che ha studiato i grandi classici (e forse non è un caso che uno dei locali che il protagonista frequenta si chiami “Stagecoach”), ma anche questi appartengono al passato, così come John Wayne, un mito che oggi non riconosce più nessuno e il cui nome può tranquillamente essere preso e storpiato per diventare quello di un piccolo messicano: Juan Wayne. Il guardare in più occasioni al cinema di Howard Hawks e John Ford non è solo una mossa necessaria vista la strada che si è deciso di percorrere: l’esordiente regista ripropone la lezioni dei maestri soprattutto perché – pare – si è divertito ad apprendere. Un analogo gusto, infatti, sembra mostrarlo persino verso la Nouvelle Vague, non disdegnando l’impiego di jump-cut, facendo rivolgere il protagonista direttamente agli spettatori e proponendo situazioni alla Rohmer, riviste ovviamente in chiave americana (ci riferiamo alle sequenze “filosofiche” nel locale notturno).
In breve, Lucky è un film che sceglie di trattare un tema altissimo, il più alto di tutti, mostrando una certa incertezza in merito a come farlo, a volte le cose vengono spiegate troppo, altre ammantate in un mistero autoriale ingiustificato. Tuttavia, si evince da ogni parte una sincera premura e un amore nei riguardi del vecchio attore e dell’intero progetto. Ogni inquadratura che vede Stanton in scena è pianificata per esaltarne la bellezza umana della figura e renderlo un mito indimenticabile. E questo è il suo finale. Dopo aver lanciato un sorriso allo spettatore analogo a quello della bambina del racconto di Skerritt, come ha già fatto il Presidente Roosevelt (è il nome dell’amato animale scappato a David Lynch), Lucky si allontana e si mette in cammino pronto ad accettare il suo destino, qualunque esso sarà. Forse, un giorno ritornerà, come il rettile corazzato in chiusura. Ma lui, che se ne è andato per davvero, ha più tempo. Perché se una testuggine può vivere anche duecento anni, un mito vive per sempre.