Alla tredicesima edizione palermitana e al terzo anno di collaborazione con il Festival dei Diritti Umani di Milano, Sole Luna Doc Film Festival è giunto a Treviso alla quinta edizione grazie all’impegno della presidente Lucia Gotti Venturato e dei direttori artistici Chiara Andrich e Andrea Mura, che non rinunciano a portare, attraverso il loro festival, uno sguardo attento e partecipe sull’uomo e sulla realtà. Con i documentari in concorso delle sezioni Human Rights, The Journey e Short Docs, con quelli fuori concorso come in Veneto Doc e nella rassegna parallela Endorfine Rosa Shocking, e con incontri e presentazioni come quella riguardante il testo Veneto 2000: il cinema. Identità e globalizzazione a Nordest a cura di Antonio Costa, Giulia Lavarone e Farah Polato.
Tanti film, tanti stili, tanti temi e a proposito di temi, mentre nelle scorse edizioni erano prioritari migrazioni, integrazione e confronto/ scontro tra culture, quest’anno sono prevalsi dei filoni più intimi (psicologico-sociale, psicologico-esistenziale) e i diritti della sezione relativa non sono stati tanto quelli politici quanto quelli al lavoro e alla casa, oltre che alla pace e all’integrità della persona. Alcuni film hanno raccontato dei luoghi o delle situazioni (il Burkina Faso di Boli Bana, la Georgia di Life Is Be, l’Azerbaigian di Les éternels o l’Islam di Da’Wah e di Of Fathers and Sons), altri hanno preso in considerazione un evento traumatico (Appennino, con cui Emiliano Dante continua il discorso sul terremoto dell’Aquila iniziato con i due film precedenti, e lo splendido Ma’ohi Nui di Annick Ghijzelings, visto quest’anno a Berlino, sui test nucleari francesi a Mururoa e sulle loro conseguenze), altri ancora stanno felicemente a sé, come Untitled e Cinema grattacielo.
Tra i film sui temi classici del festival che si distinguono per efficacia stilistico-narrativa troviamo due cortometraggi, One minute di Dina Naser e The Europea Dream: Serbia di Jaime Alekos; il primo sul massacro di Shujayya, a Gaza, che nel 2014 ha provocato duemilacentonovantadue morti e cinquecentoventimila sfollati, il secondo sugli ottomila migranti afgani che, non potendo più percorrere la rotta balcanica, sono rimasti bloccati in Serbia, spesso nella foresta, dopo essere stati picchiati e torturati dalla polizia ungherese. Sulle dittature sudamericane vertono due film su cui torneremo, El color del camaleón e Los ofendidos, mentre In the Name of… di Erlynee Kardany narra il matrimonio di un ragazzo norvegese con una ragazza (la regista) di Singapore e di religione musulmana, e le due facce dell’Islam sono mostrate in Da’Wah di Italo Spinelli, che ritrae gli allievi di una scuola coranica indonesiana che predica la non violenza nella diffusione del proprio credo, e in Of Fathers and Sons di Talal Derki, cruda rappresentazione di una famiglia di attivisti di Al-Nusra fatta da un siriano, il regista, che è tornato in patria per due anni (vive in esilio a Berlino) fingendosi un fondamentalista e potendo, così, vivere fianco a fianco di questo padre e dei suoi otto figli, che stanno seguendo le sue orme.
Quest’ultimo film, che è efficace tanto nel descrivere la situazione di una parte della Siria quanto nel mostrare le “ragioni” dell’islamismo radicale, si concentra sul rapporto tra padre e figli e su come questi vengano influenzati, anzi “determinati”, dal contesto socio-culturale, oltre che politico e familiare, in cui vivono e dalla figura paterna, che adorano e che li adora; inconcepibile fare una scelta di vita diversa, e infatti l’unico tra i figli che potrà andare a scuola sarà quello che non è adatto alla vita militare, per fragilità fisica. Veniamo quindi a uno dei temi chiave del festival di quest’anno, il rapporto, appunto, tra genitori e figli, e in particolare tra un padre e i suoi figli che, arrivati ad una certa età, sentono il bisogno di approfondirne la conoscenza, anche per ritrovare le proprie radici. Lo vediamo in uno dei film più belli del festival, Raghu Rai. An Unframed Portrait di Avani Rai, che ripercorre la carriera del fotografo dell’agenzia Magnum Raghu Rai nello sguardo della figlia, a sua volta fotografa, che sente l’eredità paterna come un peso da portare ma anche come un talento da coltivare, e di cui andare fiera. Perché non è solo fotografia ma è uno sguardo diverso sul mondo, un modo spirituale e aperto di considerare l’uomo singolo e l’umanità tutta. Lo troviamo poi in El color del camaleón, che è il percorso del giovane regista Andrés Lübbert alla ricerca del padre Jorge e della sua storia mai rivelata, che lo vede implicato nelle vicende della dittatura cilena. E in Los ofendidos di Marcela Zamora, in cui una figlia intervista il padre, arrestato e torturato dalla polizia di El Salvador negli anni della guerra civile, e altre persone che hanno subito una sorte analoga, per far luce su una vicenda di cui si parla ancora poco («Siamo la generazione che non chiede»).
Altro tema di quest’edizione della rassegna è quello della sessualità e dell’identità di genere, che da documentari più classici (in Men Speak Out di Benjamin Durand migranti di tre paesi europei diversi, che aderiscono al progetto omonimo, discutono delle mutilazioni genitali femminili con le comunità locali che le sostengono, per cambiarne i comportamenti; Shootball di Fèlix Colomer è un documentario d’inchiesta sulla vicenda di un insegnante pedofilo di un istituto privato cattolico spagnolo, costruito in maniera eccelsa), passando per due cortometraggi notevoli (La Pureza di Pedro Vikingo per il tema, la transessualità infantile spiegata da cinque bambini che la vivono, e Happy Today di Giulio Tonincelli per la nitidezza delle immagini che ritraggono un’ostetrica ugandese nella difficoltà ma anche nella gioia del suo lavoro quotidiano), arriva a uno dei film più interessanti dell’intero festival, Sidney & Friends di Tristan Aitchison, che verte sulla transessualità e sull’intersessualità in Kenya attraverso la testimonianza, che copre tre anni, di sei persone che hanno faticato, nel contesto socioculturale in cui vivevano, ad affermare la propria identità: immagini strepitose, ferme e in movimento, rigorosamente in bianco e nero, sguardi e volti sempre in primo piano, accompagnamento musicale in tema; una gioia per gli occhi e per il cuore.
Una gioia per gli occhi e per il cuore sono anche i due film che difficilmente rientrano in una categoria specifica, Cinema grattacielo di Marco Bertozzi e Untitled di Michael Glawogger e Monika Willi. Il primo, premiato al Biografilm Festival, fa parlare il grattacielo di Rimini in quanto simbolo di una città (e di un paese) e delle sue trasformazioni, per cui da palazzo di lusso espressione del boom economico con i suoi ventinove piani, è diventato ora una babele di duecento unità abitate da persone di etnie diverse, che devono trovare un modo di convivere. Il secondo, presentato a Berlino e pluripremiato, è l’opera incompiuta di Glawogger, morto in Liberia nel 2014 nel corso del suo viaggio nei Balcani, in Italia e in Africa, ripresa e montata dalla sua collaboratrice Monika Willi. Poesia visiva, riprese lunghe per lasciar parlare la realtà, corpi e volti scandagliati ma al contempo considerati nel loro valore simbolico, umanità disperata ma piena, viva. E poetico e suggestivo è anche il citato Les éternels di Pierre-Yves Vandeweerd, che ritrae un’enclave armena in Azerbaigian per dire della tragicità del destino di un popolo sempre perseguitato, che sembra non avere mai fine.
Noi finiamo invece parlando ancora di diritti e in particolare del diritto alla casa, ben trattato in Before My Feet Touch the Ground di Daphni Leef che racconta le manifestazioni di Tel Aviv del 2011 per una politica abitativa più giusta organizzate dalla regista, e di un diritto che, in linea con i tempi, è stato al centro di ben tre film, il diritto al lavoro. In particolare il documentario di Parsifal Reparato Nimble Fingers, oltre a distinguersi per lo stile impeccabile (movimenti di macchina, fotografia, musica), tratta un tema singolare ma al contempo universale, la condizione delle operaie vietnamite della Canon di Hanoi, che sono assunte, come ai tempi della prima industrializzazione, per le dita sottili e la precisione alla catena di montaggio, e che dopo cinque anni sono rimpiazzate. Mentre Strike a Rock di Aliki Saragas, sul massacro di Marikana, Sudafrica, del 2012 (trentasette minatori uccisi dalla polizia durante una manifestazione pacifica), mostra la lotta per il lavoro che due nonne portano avanti, concludendo in modo originale la carrellata di figure femminili che il festival ha presentato.