È un film testimonianza, prima di tutto, Sembra mio figlio. Un’offerta di voce a chi voce non ha: l’intero popolo degli Haz?ra, discendente, forse – lo spiega una didascalia nel film – «dall'armata di Gengis Khan che invase l'Afghanistan nel Tredicesimo secolo». Una cultura, quindi, probabilmente autoctona, ma da lungo tempo «tra le più perseguitate della terra». Un popolo di cui si sa poco – almeno in Italia – ma che da secoli è «vittima di genocidio, di crimini di guerra e di crimini contro l'umanità». Costanza Quatriglio, già autrice di importanti documentari sul tema migrazioni/integrazione (anche se il suo esordio alla regia – L’Isola, del lontano 2003 – era un film di finzione) microfona e insieme ascolta questa cultura dai tratti somatici mongoli, ormai lacerata e ridotta a minoranza etnica. Lo fa con un’opera asciutta, se vuoi piccola, esile, ma anche per questo, anzi, forse proprio per la sua vistosa magrezza, assai decisa e coraggiosa nel mettersi in marcia ed arrivare al suo obiettivo.
È un reportage poetico, quello della regista siciliana, che inquadra un presente silenzioso ma tra i più drammatici del pianeta. Ed è il racconto di uno dei mali più antichi dell’uomo: la violenza di popoli su altri popoli, di esseri umani su altri esseri umani. È un film inizialmente urbano, Sembra mio figlio, di asfalto e di luci artificiali, di scuro rumore occidentale, con un impercettibile Renato Zero quasi sommerso dal frastuono di una fabbrica. Poi l’autrice si incammina lungo uno sterrato illuminato soprattutto dalla natura, e raggiunge un tempo fermo e più antico, scansando però ogni sirena di idealizzazione, disegnando un’opera itinerante, pudica e rispettosissima della realtà difficile che narra, rifiutando epidermicamente ogni spettacolarizzazione della sofferenza, svuotando le sue fotografie di ogni retorica o sentimentalismo. Temendo ogni orpello fino a lavorare in vistosa sottrazione. È la messa a fuoco di un singolo caso, ciò che le sta a cuore, l’avvicinamento di un urlo particolare e silenziato, di un dolore ingiusto e incomunicabile. Poi forse, probabilmente, da lì partendo c’è anche il desiderio di raggiungere un universale purtroppo ancora tristemente attuale: ogni discriminazione che diventa guerra e alimenta migrazioni forzate, autodeportazioni che significano sradicamento ed esistenze sospese tra origini e nuovi mondi, molto spesso indifferenti e poco ospitali.
Il viaggio di Costanza Quatriglio parte da una Trieste appena pennellata, solo intuibile – nemmeno troppo facilmente – e da lì giunge fino in Pakistan e poi in Afghanistan: da un luogo simbolicamente al centro dell’Europa – ma anche di confine, un intervallo tra occidente e oriente, ponte e insieme isola tra le montagne e il mare – fino a un paesaggio di villaggi posati su un giallastro morbido e brullo, con montagne schizzate di neve all’orizzonte che avvolgono distese naturali, docili e vastissime, dannatamente infettate da una sofferenza e da una povertà tutte della violenza umana, non di altra natura. L’idea venne alla Quatriglio dall’incontro con Mohammad Jan Azad: giovane afghano di etnia Haz?ra, giunto in Europa quando era bambino, e riuscito a riabbracciare sua madre solo da adulto. Era uno dei protagonisti del documentario Il mondo addosso, che la regista realizzò nel 2006, sul complesso quotidiano di alcuni ragazzi immigrati in Italia da diversi paesi, tra sradicamento e desiderio di integrazione e di futuro.
Da lì la storia, relativamente di finzione, di Ismail e di Hassan: due fratelli Haz?ra approdati in Italia da bambini, quando Ismail, il più piccolo dei due, aveva solo nove anni, e Hassan, il più grande, era reduce dalle strazianti torture dei talebani, che in procinto di liberarlo gli dissero di far vedere a tutti ciò che di terribile gli avevano fatto, di mostrare i segni, esteriori e interiori, che ancora oggi porta addosso, che gli impediscono di battersi come fa Ismail, di certo meno sfortunato del fratello, a modo suo inserito nel tessuto sociale del paese ospitante. È lui, nel film, che crede di aver ritrovato sua madre dopo molti anni, e quando questa non lo riconosce al telefono, o quantomeno nega di essere la donna che lo partorì («Non ho nessun figlio», le risponde inizialmente) egli decide di partire nonostante concreti pericoli all’orizzonte. Per poter almeno parlare, per ritrovare simbolicamente quella voce, quell’identità, e quelle relazioni vitali che al suo volto, bello di una elegante mitezza, e al suo corpo, compostamente sospeso per l’Europa, sono negate. Un quasi invisibile, Ismail, un solo apparentemente presente, e quel casco di un giallo acceso, indossato in motorino per le strade umide di Trieste, potrebbe sottolineare la sua condizione di penombra sociale, di trasparenza esistenziale.
Così come quella madre che non parla, che rifiuta ogni forma di scambio affettivo, in qualche modo può rappresentare la sua stessa cultura oppressa e imbavagliata, e l’uomo che adesso le sta accanto, che ragiona e parla per lei, impedendole di vivere le relazioni primarie – minando immancabilmente anche la già fragile armonia tra (due) fratelli provati dalla storia – può anche essere letto come il simbolo della violenza e della sopraffazione causa prima della condizione del popolo Haz?ra. Prima di partire, Ismail – interpretato dal poeta e giornalista Haz?ra Basir Ahang – confida la sua drammatica vicenda a una ragazza (interpretata da Tihana Lazovich), e con la quale è nato, o potrebbe nascere, un sentimento amoroso. Anche lei è straniera non estranea a un vissuto di guerra; nemmeno lei è scampata a questa piaga della nostra specie, e scruta silenziosa Ismail quando le parla del suo imminente viaggio. Lo fissa sofferente per quel quasi amore già aggredito dalle antiche ferite. Si stordisce di musica e rimane muta, come muti, immediatamente dopo lo stacco, sono i bambini Haz?ra con una candela in mano, uniti a pregare, di notte, e a prendere coscienza di cosa è capace l’essere umano.
Ma in un film che cammina a suo agio sul confine tra finzione e documentario, dove il passamano tra le due grandi vie del cinema – finzione e documentario – è una continua e morbida sinergia, e dove le scene madri sono puntualmente ossigenate di reale, e la forza dei lineamenti pasoliniani, degli sguardi incoscienti, non filtrati, raccolti dalla strada giocano un ruolo importante, rimangono volutamente aperti alcuni spazi, certi silenzi parlanti in cui Ismail deposita il suo pensiero intimo, non facilmente decodificabile, che probabilmente riguarda la propria condizione di immobilità interiore. Perciò il suo viaggio pubblico – che aggiunge immagini precise a quanto fino a poco prima raccontato – è anche un viaggio personale: è ricerca del proprio futuro oltreché di un passato che ancora respira, seppure ansimante, e ancora lotta per difendere le sue tradizioni, i suoi schemi culturali non sempre facili da accettare - nemmeno per Ismail - eppure segno di una voglia di esserci, di non soccombere.
È un’opera di ascolto, Sembra mio figlio, pedinatrice di un sentiero nascosto e quindi necessaria, preziosa: un razzo nella notte, un faro acceso sopra un popolo che conobbe un primo genocidio nel 1890, col «sessantadue per cento della popolazione massacrata». «Da allora è in corso una diaspora in tutto il mondo», e se il film di una regista italiana non riuscirà a fermare questa emorragia di vita e di cultura, saranno almeno di più quelli che avranno saputo e che saranno costretti a prendere coscienza di un altro profondo sanguinamento sulla terra. Potranno anche scorgere, dentro Sembra mio figlio, la necessità umana di rimanere in relazione con le nostre radici, e come le parole siano uno strumento per combatterne la distruzione, la dispersione, come siano contenitori della memoria.