CINEFORUM / 588

Grandi bugie tra amici

Le storie incentrate sulle comunità di amici costituiscono quasi un genere a sé del cinema francese, fin dai tempi del capolavoro di Duvivier La bella brigata (1936), per proseguire in anni più recenti con il magistrale Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre (1974) di Sautet, il delizioso dittico di Yves Robert Certi piccolissimi peccati (1976) e Andremo tutti in paradiso (1977), quindi con i bei film sull'Estaque marsigliese di Robert Guédiguian, fino all'assai più modesto trittico di Marc Esposito Il cuore degli uomini (2003-2013). Nove anni fa, con Piccole bugie tra amici (Les Petits mouchoirs, 2010), volle misurarsi con questa tradizione anche Guillaume Canet, un attore molto popolare in Francia dalla fine degli anni Novanta e che, dopo gli esordi un po' incolori ma non indecorosi, ha dato buone prove in film recenti quali Mio figlio (2017) di Christian Carion, 7 uomini a mollo (2018) di un altro famoso attore-regista, Gilles Lellouche, con cui ha lavorato spesso, e Il gioco delle coppie (2018) di Assayas. Come attore, Canet pratica un eclettismo continuo che lo porta a passare con disinvoltura da un genere all'altro e lo stesso nei suoi sei film da regista, dove quasi sempre evita di recitare per dedicarsi interamente alla messa in scena.

Piccole bugie tra amici era una commedia dove prevalevano le tinte di asprezza, anche se la narrazione e la regia rimanevano su binari convenzionali e l'energia del racconto derivava soprattutto dalle interpretazioni degli attori: François Cluzet, Benoît Magimel, Marion Cotillard, Jean Dujardin, Gilles Lellouche e Laurent Lafitte. Probabilmente il fenomenale successo del film in Francia era dovuto all'insolita miscela di umorismo e situazioni stridenti e “sgradevoli” (Canet dichiarò di essersi ispirato alla commedia italiana di Monicelli e Risi) e all'apporto degli attori, già molto amati dal pubblico. Quando ha pensato di dare un seguito al film, Canet ha sottoposto la sceneggiatura a tutti gli interpreti ma questi hanno a lungo rifiutato di accettare perché insoddisfatti del testo e dei dialoghi, cui hanno finito per contribuire in modo determinante. Per Nous finirons ensemble – un titolo che richiama un po' velleitariamente Nous ne vieillirons pas ensemble (L'amante giovane, 1972) di Pialat – Canet ha scelto di mostrare una Cap-Ferret autunnale rispetto a quella estiva del primo film, per ritrovare, a distanza di tre anni, i personaggi in situazioni differenti.

L'inizio del film è la parte più riuscita, con gli atti nevrotici e convulsi di Max, solo nella grande casa, che tradiscono ansia e depressione, così come l'apparizione a sorpresa degli amici fa affiorare i cattivi e buoni sentimenti che si confondono con una certa efficacia. Poi la sceneggiatura sciorina battute sempre più facili e grossolane finché, nella seconda parte, Canet inserisce artificialmente una serie di situazioni pretestuose, moltiplica i colpi di scena a effetto fino a concludersi su un ultimo, banale colpo di scena. Di fronte a una regia di routine e a una sceneggiatura che ha questi e altri limiti, le performance degli attori rimangono l'elemento di forza del film, anche se sono diseguali: il bravissimo Cluzet a tratti gigioneggia, Magimel si conferma uno dei migliori attori della sua generazione; Marion Cotillard, Laurent Lafitte, Gilles Lellouche, Pascale Arbillot, Clémentine Baert, Valérie Bonneton sono tutti efficaci. Se vogliamo, il film (che al botteghino d'Oltralpe ha attirato metà spettatori del primo) può essere considerato anche un referto sociologico su una borghesia ipocrita, vagamente depressa e profondamente conformista, a cui rimane soltanto l'amicizia in nome del passato.